Diciamoci la verità: a un presidente del Consiglio in carica non può far piacere che una sua ministra, nota faccendiera, abbia mentito in aula al Senato per difendere una posizione diventata insostenibile, mostrando come sia profondo, tra l’altro, il conflitto di interessi tra i propri affari privati e la carica pubblica che ricopre. Meno che mai può piacere a una leader donna che il suo principale alleato di partito (vecchio arnese discendente in linea diretta da Salò) prenda immediatamente e maschiamente le difese del figlio accusato di violenza sessuale. (Il caso Delmastro è un po’ diverso, e “terzogiornale” conta di ritornarci su nei prossimi giorni). Un presidente del Consiglio, di qualsivoglia genere o partito, preferirebbe che la suddetta ministra si facesse da parte spontaneamente, per non mettere in imbarazzo il governo. E a una leader donna non può che apparire chiaro – come del resto anche a Giorgia Meloni, e gliene diamo atto – che una ragazza che denuncia una violenza sessuale non lo fa mai a cuor leggero, per quanto abbia assunto delle droghe, che in nessun caso sono una giustificazione per chi abbia commesso, se questo è il caso, violenza su di lei.
Ma Meloni non è affatto una presidente del Consiglio libera e pura come sarebbe quella underdog che dice di essere. Deve rendere conto. Anzitutto a colui che ha fatto eleggere alla presidenza del Senato, e inoltre a una pletora di “cani” e “sottocani”, più underdogs di lei, che dalla impensabile vittoria elettorale – impensabile, però, solo fino a qualche decennio fa – devono poter trarre il massimo vantaggio: altrimenti a cosa servirebbe la politica? È per la sua natura, insieme postfascista e postberlusconiana, che la leadership di Meloni si trova ridotta a una dimensione piccola piccola.
Ora, i casi Santanchè e La Russa sono incredibilmente legati tra loro: e non solo per il legame stretto che c’è tra i due (la prima ha iniziato la sua attività politica proprio con il secondo), ma anche in quanto si collocano proprio al crocevia tra fascismo e berlusconismo, cioè di quel grumo di interessi e ideologia che ha fatto le fortune della destra in Italia dal 1994 a questa parte. In quanto evoluzione (fino a che punto, però, evoluzione?) di un pasticcio tipicamente italiano – sintesi bizzarra finché si vuole, ma elettoralmente riuscita, tra il ventre molle italiano, in particolare quello del Nord del Paese, fatto di evasori fiscali e speculatori indefessi, e una classe politica, soprattutto laziale e meridionale, di provenienza missina, avvezza al saluto romano e ad altra paccottiglia –, Meloni deve portare avanti insieme (post)fascismo e (post)berlusconismo. Dei quali, tra i maggiori rappresentanti, sono appunto La Russa e Santanchè, o Santanchè e La Russa.
Come lasciare cadere, dunque, l’una o l’altro? Impossibile. Sarebbe la stessa leadership piccola piccola a uscirne indebolita, dovendo poi fronteggiare una pletora di abbaianti underdogs che si identificano con l’uno o con l’altra, o con ambedue. Ecco perché Meloni non potrà fare altro che destreggiarsi, ma – almeno di novità al momento non prevedibili – le tranquille facce di bronzo resteranno tranquillamente ai loro posti.