C’era perfino chi le aveva date per “pacificate”, ma l’incomprensibile uccisione a freddo dell’adolescente Nahel a un posto di blocco ha scatenato nelle banlieues una rivolta di dimensioni ancora maggiori, più rapida e intensa, di quella del 2005, quando i quartieri erano stati attraversati dalla reazione alla morte a Clichy-sous-Bois di due adolescenti inseguiti dalla polizia. I numeri dicono molto e insieme poco: non è da sola la contabilità delle forze dell’ordine e dei mezzi impiegati o l’elenco degli incendi e dei negozi saccheggiati a dare un’idea delle dimensioni assunte da quella che appare una vera e propria sommossa, che coinvolge non solo ragazzi di origine migrante di ormai quarta generazione, ma anche studenti e bianchi poveri delle periferie. Un moto di massa, che ha interessato l’intero Paese. La mappa degli scontri e degli incidenti è impressionante: non lascia fuori nemmeno un angolo dello hexagone, e il fuoco si è propagato anche al di là dei confini nazionali.
Un ritorno della “intifada delle banlieues” come fu definita nel 1991? Certo, qualcosa deve essere andato storto nell’annoso e meccanicamente reiterato progetto assimilazionista della Francia repubblicana, se un terzo degli arrestati di questi giorni hanno meno di 17 anni. Gli adolescenti che vanno allo scontro deliberato con la polizia ci parlano di territori a lungo trascurati, di scuole inutili, di mancanza di opportunità, strutture, lavoro. Non regge più nemmeno la rete del volontariato e dell’associazionismo, logoratasi negli anni.
D’altro canto, non si può nemmeno parlare di un “ritorno dell’eguale”, di una riproposizione di quanto già visto. Le banlieues sono cambiate fisicamente e socialmente nei quasi vent’anni che intercorrono dall’ultima esplosione, e in mezzo ci sono state altre vicende, i “gilet gialli”, gli scioperi contro l’innalzamento dell’età pensionabile. Non solo, pezzi di banlieue si sono “gentrificati”: Montreuil per esempio è diventata una zona residenziale cara, anche se sopravvivono enclave popolari di palazzoni HLM; e nella banlieue proche, quella meno distante dal centro, si sono insediati studenti e giovani precari espulsi dalle zone centrali.
Parigi stessa è cambiata, con l’espandersi dell’area metropolitana del Grand Paris in una regione urbana sempre più estesa, in cui si sono andate scavando disuguaglianze sociali e spaziali diverse dal passato: una parte dei poveri viene respinta sempre più lontano, a trenta, quaranta chilometri dalle zone centrali. Il “momento George Floyd” dei francesi si colloca, quindi, sullo sfondo di mutamenti importanti nell’assetto metropolitano. Colpisce, inoltre, che l’epicentro della rivolta sia stata Nanterre, su cui grava un passato pesante di rabbie e di discriminazioni, e in cui gli operai algerini e nordafricani che lavoravano alla Simca e in altre fabbriche della zona furono a lungo confinati in una bidonville di baracche autocostruite, senza acqua corrente, senza fogne, senza elettricità, come raccontava in un bellissimo libro (Una Nanterre algerina, terra di bidonville) il sociologo Abdelmalek Sayad. Baracche che esistettero per circa vent’anni alle porte della civile Parigi, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e in cui vissero migliaia di persone, prevalentemente nordafricani e algerini.
I nonni di Nahel hanno vissuto un’odissea di discriminazioni, difficoltà e umiliazioni quotidiane, che hanno prodotto un lascito di rabbia e di risentimento, che nei più giovani è ancora più forte che nei vecchi che vissero quell’esperienza limite. I conti con l’eredità coloniale e il suo portato non si faranno mai abbastanza: la lista è lunghissima.
Va anche detto, come nota un editoriale della “Suddeutsche Zeitung”, che le proteste si svolgono sullo sfondo di una situazione economico-sociale problematica, che chiude ogni prospettiva. L’impoverimento di parti consistenti della società francese – in banlieue i tassi di povertà sono tre o quattro volte quelli dei quartieri centrali –, le difficoltà in cui si dibatte il welfare locale, la crescente lontananza dei servizi dalle zone maggiormente difficili, hanno creato un contesto cui pare estremamente difficile porre rimedio, se non con misure contenitive e sicuritarie. Anche perché, a differenza di altre proteste sociali in Francia, quelle delle banlieues hanno a lungo scontato e continuano a scontare difficoltà a organizzarsi, a trasformarsi in una pressione politica duratura: il che fa pensare che le istanze che ne scaturiscono continueranno a rimanere inascoltate a lungo termine, e potrebbero rimanere cicliche, sporadiche, ricorrenti. Magari fino al prossimo dramma.
Le prossime elezioni presidenziali sono nel 2027, non lontanissime. Marine Le Pen, che nelle periferie raccoglie non pochi voti, potrebbe vedersi offerta la possibilità di conquistare il potere anche per la frustrazione di chi vede quanto poco sia cambiato dal 2005 nell’intervento pubblico. I “quartieri difficili” sono stati oggetto di costosi programmi di sviluppo urbano, ma i problemi di fondo sono rimasti irrisolti e i tassi di disoccupazione e di criminalità sono ancora superiori alla media nazionale. Rimane aperto anche il discorso sul comportamento delle forze dell’ordine. Il numero di casi che documentano un comportamento chiaramente abusivo da parte della polizia, che usa la maniera forte contro quello che viene visto come una sorta di “nemico interno”, è quasi impossibile da tenere sotto controllo, per il perdurare di una sorta di impunità. Impunità che però in questi giorni, con l’arresto del poliziotto che ha sparato, sembra quantomeno messa in discussione. A peggiorare ulteriormente le cose, la polizia è stata armata con proiettili di gomma e altre armi antisommossa decisamente controverse e pericolose, già utilizzate durante le proteste sulle pensioni. Va chiarito che la polizia in Francia, per vecchia tradizione, non protegge in primo luogo i cittadini, ma protegge prima di tutto lo Stato. Come ha mostrato una bella ricerca etnografica di Didier Fassin (La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle periferie urbane). Esiste, inoltre, un pregiudizio etnico, un atteggiamento di base che permea tutte le unità, dalle forze speciali ai controllori del traffico, e che certo non aiuta a tenere tranquille le acque.
Ora si direbbe che l’intensità della rivolta si stia attenuando, ma l’idea di de-escalation è estranea a molti. Fino a quando non cambierà nulla, episodi come questo si ripeteranno. E non si intravede una fine alla violenza, che in queste zone ha radici profonde. Nelle periferie francesi cova una questione sociale che non riguarda solo quelli che si sono orgogliosamente autodefiniti “barbari”, le varie generazioni di migranti, ma anche una serie di settori sociali impoveriti, che prima o poi si faranno sentire con forza. La dimensione politica delle rivolte recenti, dai “gilet gialli” in poi, è stata spesso offuscata dal fatto che non prendono la strada della politica istituzionale o della rivendicazione organizzata. Scriveva Victor Hugo: “È nell’essenza del moto rivoluzionario, che non va confuso con altri tipi di moti, di avere quasi sempre torto nelle forme, e ragione di fondo”.