Sul web, sui social, sui media si è aperta una discussione sulle tragedie del mare. Il tema si può riassumere in un interrogativo: c’è una differenza tra i cinque miliardari che scendono negli abissi per vedere il relitto del Titanic, con il loro piccolo sommergibile che implode, e il peschereccio che affonda trascinandosi sul fondo cinquecento migranti? Molti obietteranno che il tema è mal posto. Che è fuorviante sottolineare quante “paginate” sono state dedicate al Titan e quante poche al peschereccio naufragato in Grecia. Per esempio, lo psichiatra Paolo Crepet, sulla tragedia del sommergibile, si interroga su “La Stampa” arrivando alla conclusione che, da Ulisse in poi, il “rischio” è insito nelle imprese dell’uomo. Lo psichiatra cita i nostri scalatori, Messner e Bonatti, e i piloti dei Gran Premi di formula uno, che sfiorano i 300 chilometri orari. Si potrebbero aggiungere gli sport estremi, le sfide continue, il mettersi sempre alla prova.
Ma la tragedia del Titan ha aperto un buco nero nella discussione. Su Facebook Ugo Pons Salabelle scrive: “Dei ricchissimi muoiono schiacciati dalla pressione dell’acqua sul fondo dell’Oceano. È indubbiamente insopportabile il divario fra straricchezza (e spreco) e una invivibile povertà”. Forse la dimensione di un film in presa diretta, dove si confondono i confini tra immaginario e reale, spiega il perché di un così imponente coinvolgimento della opinione pubblica, trascinata in una dimensione ipnotica collettiva, che ha seguito il consumarsi della tragedia del Titan.
Ma cosa c’è di diverso oggi, rispetto alle imprese del passato, in questo spingersi oltre il limite? Pons Salabelle coglie lo stridore dell’opposta radicalità tra povertà e straricchezza. Non cita il naufragio dei migranti. Quei corpi inghiottiti dal Mediterraneo sono già dei fantasmi che tutti incasellano nell’inferno che si chiama povertà.
Se pensiamo ai ragazzi della Lamborghini di Casal Palocco di Roma, la differenza tra l’andare oltre il limite e i cinque supermiliardari e i ragazzi Youtuber, consiste nell’assenza del rispetto della vita. Vita propria e altrui. Non pensiamo che ciò che li spingeva a raggiungere il limite, e magari a superarlo, fosse la sfida tra la vita e la morte. Non lo pensavano i Bonatti e i Messner o i tre poveri astronauti di Apollo 1 che morirono nel 1967. E ancora, non lo pensavano i sette astronauti che dovevano andare sulla luna a bordo dello Space Shuttle Challenger, esploso dopo appena 73 secondi dalla partenza, nel gennaio del 1986.
I tempi sono cambiati. Saranno la crisi, le guerre, le migrazioni economiche, i conflitti etnici e religiosi, i cambiamenti climatici. Tutto questo porta a una visione pessimistica della vita. E se avesse ragione lo scienziato di fama, Piergiorgio Odifreddi, quando dice che l’uomo non sta distruggendo il pianeta ma se stesso?