Come una goccia d’olio che scivola nell’acqua. Quindici mesi di pena per Piercamillo Davigo, l’ultimo dei quattro dell’Apocalisse giudiziaria italiana, e a stento due articoli di giornale. Non è più tempo per analisi e valutazioni controcorrente. Quella stagione “coraggiosa”, in certi momenti al limite di abusi e di deliri di onnipotenza – diciamo pure: di invasioni di campo e di snaturamento politico della propria funzione –, è finita definitivamente. E non è detto che sia un male, ma forse non è neanche un bene.
La condanna arriva, infatti, nelle ore della controriforma giudiziaria del ministro di Giustizia Carlo Nordio (vedi qui). Grottesca suona la richiesta di un interrogatorio preventivo prima di emettere una misura cautelare nei confronti di un indagato. Un invito alla latitanza, potremmo definirlo. Ma sull’abuso d’ufficio e le intercettazioni, se fosse successo venti o dieci anni fa, avremmo trovato l’opinione pubblica per strada. Oggi invece è divisa.
La destra-destra è al governo e, nella magistratura, gli spazi lasciati vuoti da quei giudici “ragazzini” della fine degli anni Ottanta, oggi in pensione, sono stati rioccupati da quella magistratura sonnolenta, casta privilegiata e serva fedele del potere, reazionaria, moderata, stabilizzatrice, che sopravvive all’uscita del tempo. Insomma, è immortale.
Piercamillo Davigo è stato un bravo magistrato, persona perbene, un moderato. È scivolato su una buccia di banana che ne ha offuscato l’onestà intellettuale. Vittima delle trame di un potere occulto che sembra guidare il Paese. Condannato per rivelazione e utilizzazione di segreto. Una medaglia al valore, l’avremmo intesa noi giornalisti, se questo reato ci fosse stato contestato – ma per un magistrato è una macchia.
Non ci sono “però” o “ma” in questa storia. Un pm milanese che indaga su Eni e dintorni. Anzi, su una loggia, la loggia Ungheria, associazione paramassonica, con dentro affaristi, professionisti, imprenditori, avvocati, eccetera eccetera (vedi qui e qui). Questo pm scalpita, freme perché il suo ufficio, il capo della procura della Repubblica di Milano è una tartaruga. Va piano, va lento, non fa decollare l’inchiesta, ha chiuso nei cassetti i verbali che potrebbero fare andare avanti l’indagine. Il pm (prosciolto dalle accuse) porta il fascicolo a Davigo, che intanto è diventato un componente togato del Consiglio superiore della magistratura. E Davigo, secondo le accuse, comunica ad altri componenti del Csm, e persino al presidente dell’Antimafia, l’esistenza di questi verbali e della lentezza delle indagini.
Da un punto di vista formale e sostanziale, quello che è accaduto è una conferma di un sistema che non va. Le responsabilità penali sono individuali e le lasciamo da parte. Anche se è del tutto legittimo pensare che il povero Davigo sia stato strumentalizzato, a sua volta, da esponenti di quella magistratura “integralista”, “estremista”, che non rinuncia a piegare la verità processuale alla verità storica, creando un cortocircuito non più tollerabile.
La condanna di Davigo è uno strappo violento, definitivo, più di quanto fosse stato lo strappo di Di Pietro quando appese la toga al chiodo e si dimise dalla magistratura. Davvero è finita una stagione. Potrebbe essere un bene, se non fosse che, tra progetti di controriforma giudiziaria e una magistratura al servizio del potere, l’aria che si respira è già diventata tossica.