A differenza dei suoi predecessori, che declinavano i propri primati ciascuno secondo i propri target – dai monastici democristiani del dopoguerra, alla De Gasperi e Fanfani, fino agli smaliziati in doppiopetto Andreotti o Colombo, per arrivare ai crapuloni socialisti craxiani, e agli stessi distanti e carismatici dirigenti comunisti, da Togliatti a Berlinguer, allo stile anglosassone di Napolitano –, il padrone di Mediaset ha giocato proprio sulla sua camaleontica capacità di caricaturare vizi, molti, e virtù, molte meno, del suo popolo. La forza di Berlusconi è stata quella di sovrapporre le seconde ai primi, mostrando come la morale fosse direttamente proporzionale ai voti raccolti.
E questa furbizia, che pure era stata ampiamente praticata dalle seconde linee dei gruppi dirigenti che abbiamo richiamato, divenne sofisticata strategia nel momento in cui incrociò la storia. Quel bizzarro pianista da piano bar che, seguendo l’onda brianzola, divenne prima spregiudicato imprenditore edile e poi avventuroso pioniere della nascente impresa televisiva, fu puntuale all’appuntamento con il suo destino, acchiappando per la coda il secondo miracolo italiano, quel prodigio che accompagnò, in pochi anni, quasi una manciata di mesi, un Paese stremato da una conflittualità sociale senza sbocco, sfibrato da un terrorismo che scavava sotto i suoi piedi, in un laboratorio semiologico, che guidò la più grande smaterializzazione che il sistema economico di un Paese abbia concentrato in meno di un lustro. Siamo nella seconda metà degli anni Settanta, quando comincia a logorarsi la pressione operaia sui sistemi proprietari, e soprattutto sulle ambizioni professionali di arti e mestieri che, non trovando uno sbocco collettivo, rifluiscono verso una domanda di consumi individuali.
Lo spregiudicato imprenditore edile di Milano entra proprio in quei mesi – siamo alla fine del fatidico 1977 – in un eccentrico inner circle, dove gli investitori immobiliari cercano nuovi approdi per i propri capitali. L’epicentro è l’Upa di Giulio Malgara, la nascente lobby degli investitori di pubblicità. A Milano, in via Larga, sede dell’Upa, nel 1978 si tiene un incontro misterioso, che segnerà la storia e la cronaca del nostro Paese nei decenni successivi.
Un gruppo di ex collaboratori di Richard Nixon, il presidente repubblicano defenestrato dopo lo scandalo del Watergate nel 1974, insediatosi al comando della Iaa (International Advertising Association), la lobby dei pubblicitari dell’Occidente, istruisce un’affollata platea di manager italiani sulle vie di uscita dalla crisi finanziaria che attanaglia le economie di mercato: dalla congiuntura si esce facendo consumare di più quella parte del mondo che consumava di più. Una strategia globale che risulterà vincente e sosterrà la svolta a destra di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, alimentando quell’anarco-capitalismo che sarà poi la fonte del turbo-populismo degli anni più recenti.
Il modo per far consumare di più chi già consuma molto è la pubblicità. Bisogna moltiplicare la spesa pubblicitaria, liberando in Europa spazi immobilizzati dai servizi pubblici radiotelevisivi. Questa la linea, e in Italia Berlusconi è il suo profeta. In quei giorni, si stringono patti e accordi: si mette in cantiere la campagna contro i monopoli pubblici, e si coagulano gli interessi dei grandi investitori che mirano a impossessarsi di settori trainanti, quali abbigliamento, arredamento, farmaceutica, meccanica di precisione. Il modo per depredare il Paese è il mercato all’ingrosso della pubblicità. Più si abbassano i prezzi – e Berlusconi li riduce di dieci volte – più paradossalmente si riduce la possibilità di entrare nel mercato, perché i grandi media internazionali fanno incetta di spot, monopolizzando la possibilità di premere sui consumatori.
Nasce da qui il “biscione” di Canale 5, che diventa Fininvest. Con la garanzia degli inserzionisti angloamericani può comprarsi Italia uno dal gruppo Rusconi e Rete 4 dalla Mondadori scalfariana. In seguito, si arma la falange di Publitalia, la concessionaria di pubblicità allestita dal compagno d’armi Dell’Utri, che allagherà l’Italia di spot televisivi e si organizza come un partito: cosa che diventerà essenziale, vent’anni dopo, per la nascita di Forza Italia.
Dal 1978 al 1984 la produzione pubblicitaria televisiva passa da novanta miliardi a quattromila miliardi, un moltiplicatore che non si è mai registrato nella storia economica del pianeta. Il nostro Paese diventa una mastodontica spugna, che assorbe e trasmette inserzioni televisive più di Francia, Spagna e Germania messe insieme. È qui che Berlusconi vince la partita, diventando il destinatario di questa gigantesca massa di investimenti che cambierà la pancia e la testa del Paese, sostituendo alla materialità industriale la smaterializzazione dei consumi. La telenovela all’ora di pranzo, gli accordi con i produttori locali, la conquista del calcio, prima sparando alle stelle nell’asta sui diritti sportivi e poi, con l’acquisto del Milan, diventando, anche nel calcio, controllore e controllato. Il suo affacciarsi nella Loggia P2 gli permette di stringere relazioni con apparati inquisitori e polizieschi che gli saranno utili quando dovrà far decorrere i termini della prescrizione per le sue inchieste. Il rigonfiamento del gruppo comincia a insidiare persino i suoi padrini politici: la sinistra sociale della Dc, area Donat Cattin con Vittorino Colombo, non regge nel confronto, e Craxi si trova ad assaggiare l’ambiguità di un suo protetto che comincia a proteggerlo.
Berlusconi mette nel mirino il palazzo, e cerca un’intesa diretta con il Pci. Il nemico è il salotto buono della finanza, dove Cuccia, il patron di Mediobanca, e Agnelli non lo fanno entrare. Ma Botteghe oscure lo snobba. Adalberto Minucci boicotta un paio di incontri organizzati da Veltroni: ma ti pare che adesso parliamo con i magliari delle tv locali – dice il dirigente comunista molto vicino a Berlinguer. Berlusconi si trova al muro contro muro con la Rai, che diventa la trincea di un compromesso storico televisivo, con la sinistra Dc di De Mita e Agnes che aprono le porte a Rai 3, ai comunisti, per fare il pieno all’Auditel che comincia a battere moneta nel Paese.
Siamo al passaggio di un’epoca: Berlusconi estende le sue relazioni sociali e internazionali. La Sicilia diventa un laboratorio per capire come autonomizzarsi dalla politica romana. Si infittiscono le ombre sul clan dei siciliani che frequentano Arcore. Ma il tesoro di famiglia rimane lo sfaldamento sociale e culturale delle piattaforme produttive del Paese, che smembrano le strutture dei suoi nemici a sinistra. Il Muro di Berlino, e lo sfondamento di Fininvest rispetto al monopolio Rai, sono i due fenomeni che creano le condizioni di Forza Italia.
Il 1992, con Mani pulite, che colpisce a morte la prima Repubblica, e quell’oscuro disegno criminale che elimina fisicamente il pool antimafia, offre al capo dell’impero televisivo privato italiano lo scenario per sconvolgere la politica. Le sue tv ammiccano ai magistrati milanesi che stanno facendo il lavoro sporco. Almeno fino a quando qualcuno capisce che, nella lista dei vecchi arnesi da eliminare, c’è anche il “biscione”. Allora si stringe il patto con il Caf, e si apre il fuoco sul palazzo di Giustizia. Ma sempre con un occhio ai territori: artigiani, piccole e medie industrie, aree dell’elusione fiscale: sono i target che da irretire. Publitalia diventa l’ossatura di un partito personale, che raccoglie e federa gli infiniti microinteressi locali in un peronismo in cui i poveri sono arruolati dai ricchi, con la promessa di un consumo egualitario.
Sulla scena globale, Clinton imprigiona i sogni della sinistra in un liberismo dei diritti che sguinzaglia ogni istinto di mercato. Siamo alle illusioni della “terza via”. La proprietà monopolista non è un avversario ma un valore – affermano i Blair –, senza essere contraddetti da D’Alema. In quest’atmosfera si soffia sul fuoco delle mobilitazioni sociali: dalla lotta alla mafia alla difesa della legalità amministrativa. Non si vuole alimentare le fiamme ma spegnerle. E ci si riesce.
Il patto sociale a cavallo dell’illegalità regge per almeno venticinque anni, e permette al suo garante di farne di cotte e crude senza pagare alcun prezzo politico, se non momentanee sconfitte elettorali, che non ne intaccano mai le ambizioni. Berlusconi diventa cosi la cattiva coscienza della sinistra: ne arruola le velleità, con D’Alema che afferma che le sue aziende sono un patrimonio nazionale da difendere, ne nega la legittimità quando accredita di comunismo Prodi e Martinazzoli, ne sbriciola la base sociale, quando trasforma i lavoratori in consumatori frustrati e rancorosi, perfezionando il suo disegno con il leghismo al Nord e il postfascismo di Fini al Sud. Una disinvoltura manovriera che la sinistra non riesce a contenere. Ma, ancora una volta, le manovre sono la conseguenza e non la causa di una centralità sociale.
Ora, più che attardarci a denunciare i servi encomi o a vendicarci con i codardi oltraggi, dovremmo ragionare politicamente. Non possiamo non chiederci come sia stato mai possibile che un personaggio pubblico, un leader politico, un imprenditore che sta sui mercati globali, abbia potuto sopravvivere alle sue traversie: condanne penali in giudicato per evasione fiscale, inchieste che lo accusano dei reati più atroci, dal fiancheggiamento della mafia al concorso nelle stragi del 1993, alla compromissione con la P2, tralasciando il folclore personale, accuse sanguinose rese pubbliche dalla seconda moglie, o ancora le separazioni dai suoi delfini come Fini e Alfano. Cataclismi che avrebbero seppellito giganti e, invece, lo lasciano comunque padrone della scena pubblica. Com’è stato possibile se non perché decide sempre la politica, soprattutto decidono i livelli di rappresentanza degli interessi sociali?
Berlusconi, in questo, fu uno straordinario marxista. Colse con un fiuto artigiano ma finissimo, quale proprio di coloro che trasformano la natura con le mani, come il mondo della sinistra nascente, che lui aveva patito negli anni Settanta, fatto di controllo sociale, di egemonia culturale, di vincoli regolamentari, si stava squagliando grazie a una profonda trasformazione socio-economica. Fu il più spettacolare testimonial di quel passaggio del Manifesto del partito comunista in cui Marx ed Engels profetizzano che “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”.
On air è la scritta che si accende all’entrata degli studi televisivi, quando è in corso una produzione, e on air fu costruito il potere del padrone di Arcore. Siamo – come abbiamo detto – alla fine degli anni Settanta, il lungo decennio della centralità operaia. Ancora si sfilava chiedendo il potere agli operai, mentre erano già visibili scricchiolii e fenditure alla base delle strutture sociali di sinistra: il disincanto del ’77, le crisi internazionali che consumano ogni immagine del blocco orientale, i sussulti di un individualismo montante, la smobilitazione delle fabbriche, la moltiplicazione dei grandi shopping center.
Berlusconi attraversa come una lama nel burro questa trasformazione, diventandone menestrello e cantore. Mentre la sinistra si arrocca solo nella sua demonizzazione per darsi un ruolo e una identità. Neanche quando è maggioranza riesce a scalfirne il potere televisivo e relazionale. Non vede le radici sociali di una sovversione progressiva. Al Nord crede di poter frenare la desertificazione industriale, al Sud cerca scorciatoie per insediarsi nei centri amministrativi.
Ma il rullo compressore procede. Siamo nel pieno della democrazia automatica, come scrive a metà degli anni Novanta, mentre Berlusconi vince per la prima volta le elezioni, Paul Virilio, che denuncia nel suo saggio La bomba informatica come “il consenso diventa audience e la partecipazione sondaggio”. Il Pci scioglie la ditta, ma cerca di sfruttarne ancora i dipendenti, che cercano invece altre collocazioni.
Con la tv iniziano a lavorare le piattaforme. Da massa diventiamo flusso – dice Baumann. Ma come si organizza in un partito stabile un flusso temporaneo? La sinistra non se lo chiede, la destra ha Berlusconi, che risponde con il peronismo elettronico. Un leader, un simbolo, tre canali h24, e infiniti cacicchi a organizzare le famiglie sul territorio.
Tutto accade attorno al trono del padrone: scandali, inchieste, denunce, reati in flagrante, tragedie e farse. Ma nulla appanna il suo richiamo: la politica al primo posto – dice il Berlusconi maoista. Il potere è sulla canna del telecomando. Finché mantiene salda quella postazione niente può insidiarlo, nemmeno una sputtanata pubblica da parte della seconda moglie, Veronica Lario, che per qualche giorno diventa Rosa Luxemburg con la sua lettera contro i volgari pasticci pubblici del marito. Un colpo che avrebbe abbattuto un eroe risultò, invece, del tutto innocuo per il nostro brianzolo: il consenso tramutava anche la volgarità in divertente furbizia.
Ora, appena la cronaca si tramuterà davvero in storia, bisognerà riprendere a pensare: cosa accadrà a sinistra? Attorno al feretro già si contendono le spoglie del tycoon. Pretendenti velleitari – o silenziosi consiglieri – stanno giocando l’ultima partita: Renzi ammicca, Calenda disdegna, Formigoni prega; la sua ultima compagna, l’onorevole Fascina, fa l’elenco degli amici di prima e li confronta con quelli di ora.
Ma a sinistra: la lezione di questi trentacinque anni è servita? Vogliamo guardare alla mappa sociale e capire quali sono gli amici e quali i nemici? Vogliamo provare a essere marxisti anche noi, dopo che il vento dell’Est della Brianza ci ha duramente castigati? Perché non facciamo anche noi Publitalia? Cioè rivoltiamo il modello di partito scegliendo una gamma di figure sociali e di interessi con cui costruire un progetto? Perché non trasmettiamo anche noi Beautiful, scegliendo un linguaggio e organizzandolo socialmente? Siamo nell’epoca della riproducibilità delle emozioni, siamo a un tornante in cui lo spazio pubblico torna a essere un valore di cittadinanza. Ripartiamo da qui, dal nostro “biscione”.