In occasione della giornata mondiale per l’ambiente, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha annunciato nuove misure per combattere il cambiamento climatico, che prevedono sanzioni contro la deforestazione illegale e la possibilità che il 50% delle terre disboscate illegalmente siano sequestrate. Lula ha anche annunciato la creazione di nuove aree di protezione ambientale, che copriranno un totale di trentamila chilometri quadrati e misure atte a restituire forza agli organismi di controllo dell’Amazzonia e di altri biomi, che di fatto il suo predecessore Jair Bolsonaro aveva smantellato, tra il 2019 e il 2022. In attesa della conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente (COP30), che si terrà a Belém, nello stato del Pará, in Amazzonia, nel 2025, Lula ha fatto sapere che proporrà la creazione di un centro di cooperazione internazionale per la protezione della foresta al vertice dei presidenti dei Paesi amazzonici, convocato per il prossimo agosto. “Dobbiamo porre fine ai gruppi del traffico di legno, della pesca e dei minerali, che sono anche complici delle reti di traffico di droga e persino di persone” – ha detto il presidente brasiliano, confermando l’impegno del suo governo per avanzare nello sviluppo delle energie rinnovabili, che, ha ricordato, rappresentano già l’85% della produzione energetica del Paese.
L’ultima forte presa di posizione sulla questione, da parte del presidente brasiliano, arriva dopo che lo scorso 30 aprile, con 283 voti a favore, 155 contrari e un’astensione, la Camera dei deputati del Brasile aveva votato il cosiddetto marco temporal, la legge che ha segnato la prima grande sconfitta, in fatto di diritti ambientali, dei novecentomila indigeni per i quali Lula ha anche creato un ministero speciale. La vicenda ha fornito inoltre una prova tangibile della difficoltà del suo governo nell’ottenere una maggioranza sulle questioni principali della sua agenda. Se la legge – promossa dai settori politici che tutelano gli interessi dell’agrobusiness – fosse approvata anche al Senato, introdurrebbe modifiche sostanziali nel sistema di delimitazione delle terre delle popolazioni originarie, privando dei loro diritti i popoli indigeni che non saranno in grado di dimostrare che vivevano fisicamente nelle loro terre il 5 ottobre 1988, giorno in cui è stata promulgata la Costituzione brasiliana. Il rischio, ora, è che molti indigeni possano essere sfrattati dai loro territori a favore dell’industria agricola e di quella dell’estrazione mineraria. Tutto ciò, mentre la Fondazione Oswaldo Cruz (Fiocruz) ha recentemente reso nota la gravità dell’inquinamento da mercurio usato dai cercatori di oro nei fiumi amazzonici.
La legge ha suscitato immediatamente le reazioni contrarie della ministra dell’Ambiente, Marina Silva, e di quella dei Popoli indigeni Sonia Guajajara, che l’hanno giudicata “un’ingiustizia inaccettabile contro i popoli indigeni del Brasile”, e come un “grave attacco ai popoli indigeni e all’ambiente”. A questo si deve aggiungere una recente decisione della Commissione congressuale che si occupa della ristrutturazione degli organi della presidenza della Repubblica e dei ministeri, che ha approvato un ridimensionamento del ministero dell’Ambiente. Se approvata da Camera e Senato, tale misura toglierà a Marina Silva l’Agenzia nazionale delle acque (Ana), la gestione dei rifiuti solidi e, soprattutto, il Registro ambientale rurale (Car), che passerebbe al ministero dello Sviluppo regionale.
Se cesseranno di essere sotto il controllo del ministro dell’Ambiente, sarà molto più facile per gli usurpatori rubare terre indigene e registrarle come proprie. Alla Camera, Marina Silva ha affermato che questi cambiamenti “chiuderanno le porte del mondo al Brasile”, e che “la credibilità di Lula non sarà sufficiente per preservare la buona immagine del Paese”, aggiungendo che “questa non è la struttura del governo che ha vinto le elezioni”. Sonia Guajajara, ministra dei Popoli indigeni, ha affermato che c’è una “certa frustrazione” con il presidente Lula a causa della sua “mancanza di impegno nella discussione di questa misura provvisoria”. Il ridimensionamento del ministero di Marina Silva non è stato imposto solo dal centro della coalizione di governo. È stato voluto dal ministro delle Relazioni istituzionali, Alexandre Padilha, del Partito dei lavoratori di Lula, e dallo stesso presidente, al fine di assicurare al governo il sostegno politico necessario per far avanzare la sua agenda politica al Congresso.
Tuttavia, le tensioni ambientali nel governo di Lula non finiscono qui, dato che rimane aperto lo scontro interno generato dall’ipotesi di sfruttamento petrolifero alla foce del Rio delle Amazzoni proposto dalla compagnia nazionale Petrobras. Alla fine del recente G7, Lula ha detto che “se il petrolio viene estratto alla foce dell’Amazzonia, che si trova a 530 chilometri di distanza, in alto mare, e se lo sfruttamento di quel petrolio rappresenta un problema per l’Amazzonia, sicuramente non sarà sfruttato. Ma mi sembra difficile, perché si trova a 530 chilometri dall’Amazzonia”.
Se Lula sembrerebbe essere favorevole, il presidente dell’Istituto brasiliano per le risorse naturali rinnovabili e ambientali (Ibama), Rodrigo Agostinho, ha dichiarato che nessuno del suo istituto concederà l’autorizzazione allo sfruttamento contro tutti i rapporti tecnici. Ibama, che dipende dal ministero dell’Ambiente, ovvero da Marina Silvia, ha detto “no” al progetto di perforazione petrolifera nell’estuario dell’Amazzonia di un’area di 350.000 chilometri quadrati. Studi recenti stimano i giacimenti del margine equatoriale tra i ventimila e i trentamila miliardi di barili, e una stima simile è stata fatta per l’estuario dell’Amazzonia, dove si prevede di perforare tre pozzi, oltre ad altri sei in tutta la zona, per un investimento totale di 6.200 milioni di reais, circa 1.250 milioni di dollari. Ibama ha detto “no” giudicando che il progetto genererebbe un grande flusso di navi e aerei, mentre il salvataggio, in caso di fuoriuscita di petrolio, sarebbe impossibile a causa della distanza dalla terraferma. I pozzi in questione si trovano, infatti, a 179 km dalla costa dello Stato di Amapá e a 500 km dalla terraferma del Rio delle Amazzoni.
I recenti problemi verificatisi nella politica ambientale di Lula rischiano di impattare negativamente sull’immagine internazionale del Paese, e potrebbero perfino mettere in pericolo la firma dell’accordo tra il Mercosur e l’Unione europea, che impone severe limitazioni ambientali. Ciò potrebbe costare al Brasile il blocco del Fondo amazzonico, già attuato da Bolsonaro, che ammonta a circa 1.100 milioni di dollari, regalati da Germania e Norvegia per preservare l’Amazzonia. Le eventuali dimissioni di Marina Silva, che già in passato ha rotto clamorosamente con Lula, poi, e l’avvio di politiche anti-ambientaliste, potrebbero avere un effetto pressoché letale per il Brasile. La stessa Norvegia ha già informato il governo brasiliano che il suo pagamento al Fondo amazzonico sarebbe stato condizionato dai prossimi dati sulla deforestazione. Tra la minuta e indomita ministra dell’Ambiente brasiliana e il fiume in piena rappresentato da Lula, il braccio di ferro è destinato a continuare.