“Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. L’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino è chiaro sin dal 1789. Ma non abbastanza per i sovranisti, a Roma come a Varsavia. La novità, forse, è il sovranismo a braccetto con lo sviluppismo. Si vede che, quando corre denaro, il trono del sovrano è a forma di cantiere.
Il governo Meloni arranca per realizzare il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per questo cerca una vecchia scorciatoia: attenuare i controlli e sbarazzarsi di “lacci e lacciuoli”. Dopo la strategia di occupazione nei grandi enti di Stato e nella comunicazione, e col progetto di ponte sullo Stretto, c’era da aspettarsi una mossa sulla gestione del denaro pubblico. La realtà è che il Pnrr si riesce a metterlo in pratica solo per una piccola quota, soprattutto per la mancanza di strutture burocratiche adatte. Anni di commissariamenti, di gestioni straordinarie, di esternalizzazioni e di privatizzazioni hanno portato a questo. Enti locali e uffici centrali sono prigionieri di una farragine: ma è politica, non giuridica. Naturalmente conviene dare la colpa ai controlli e alla magistratura, sostenendo che nulla si può fare perché tutti hanno paura di firmare. Eppure, basta ciò che sta venendo fuori nel processo del ponte Morandi, per capire che i controlli non sono il nemico delle opere pubbliche, ma l’alleato di chi, dopo, di quelle opere ha bisogno.
A questo punto, arriva l’attacco alla Corte dei conti. Dopo dubbie consultazioni, la maggioranza impone una modifica legislativa che colpisce il controllo, in particolare quello preventivo. Prende corpo, per legge, la retorica del “fare”: la giustizia contabile deve avere le unghie corte, perché altri le abbiano lunghe. La politica governativa vede il consenso a rischio; per forza: le garanzie sul reddito sono state vanificate, l’inflazione non si ferma e ci si muove per alleggerire il prelievo fiscale sui ricchi e aumentarlo sui poveri. Le elezioni europee, poi, non sono lontane, e bisogna accaparrarsi qualche successo, costi quel che costi.
L’allergia alla Corte dei conti viene da lontano, se persino la sua indipendenza è stata oggetto di manipolazioni. Un problema denunciato da tempo. Per esempio, dai presidenti dell’Associazione dei magistrati contabili, come dal presidente della stessa Corte, Guido Carlino. In un convegno, l’anno scorso, Carlino ha indicato la falla nel sistema di autogoverno per la giustizia contabile: “L’attuale consiglio di presidenza della Corte dei conti rappresenta una grave anomalia rispetto agli altri organi, in quanto i componenti eletti si trovano in minoranza”.
Niente da fare. Non è servito neanche ricordare che ci sono esigenze poste dal diritto eurounitario. È vero che non c’è solo la giustizia contabile a ricevere un trattamento diverso da quello necessario: la giustizia militare, che fa processi penali come quella ordinaria, ha un organo di autogoverno prorogato (vedi qui). Quella tributaria non è messa meglio. Ma il punto è che proprio col Pnrr il momento sarebbe ideale, per valorizzare la giustizia contabile, sia come indipendenza sia come funzioni. E che si fa? Tutto il contrario.
La lezione europea sulla Polonia dovrebbe insegnare qualcosa. La Corte di giustizia dell’Unione, causa C-204/21, ha accolto la tesi della Commissione: la riforma del 2019 sulla giustizia ordinaria, su quella amministrativa e sulla Corte suprema è contro il diritto eurounitario (vedi qui). Certo, i provvedimenti italiani non sono come quelli polacchi condannati dalla Corte in Lussemburgo. I provvedimenti polacchi, a loro volta, non sono atroci come quelli turchi, sempre contro la giustizia: magistrati e avvocati in galera. Ma si nota un crescendo di ostilità contro lo Stato di diritto. L’avversione per la legalità si può esprimere con manomissioni di competenze, alterazioni o stati di eccezione sugli organi di autogoverno, pensionamenti mirati, scompaginamenti delle categorie professionali, manette ai giuristi. L’arsenale delle manovre è ampio.
I controllori danno fastidio, e in Italia questo oscuro paradigma, questa moda a vita alta e muso duro, prende una forma più consona agli affari e agli appetiti sulle commesse pubbliche, rispetto alle ambizioni sultanesche di Ankara o agli identitarismi di Budapest e Varsavia. La Turchia vuole un nuovo ruolo egemonico (già prima della grande guerra era solo di nome), Ungheria e Polonia cancellano tracce immaginarie del comunismo come un tic nervoso. Tutte illusioni: la storia non torna indietro e i diversi modi di rinnegare il “secolo breve” sono altro.
In Italia la situazione è diversa, e non solo perché, di quel secolo, al quadro politico governativo sta stretto solo il secondo tempo, quello della Costituzione repubblicana. Il punto è che qui è arrivato il denaro e l’affarismo vuole modi spicci. “E la nave va” – si ripeteva al tempo di Bettino Craxi, prima che un rovescio politico spingesse i complici e i testimoni a parlare, dicendo la verità e mettendo fine alla “Milano da bere”. Verrebbe voglia di trarne una mesta morale: se per dire la verità ci vuole un cambiamento politico, allora il blocco del sistema politico è la garanzia del silenzio.
Bene, dunque, che i magistrati contabili prendano posizione; e bene che anche l’Associazione nazionale magistrati si mobiliti, perché non c’è da illudersi che, colpita una magistratura, ci siano riguardi per un’altra. Meglio ancora, se la condanna della Polonia – un Paese civile che da qualche anno sembra imbarbarirsi – fosse tenuta presente con più attenzione, in Italia. Su Polonia e Ungheria si è parlato di “costituzionalismo malato”, e di certo quel morbo ha germi che il melonismo non previene. Del resto, se l’economia non andasse come vuole la propaganda, peggiorati i servizi pubblici e sterilizzata l’assistenza sociale, il colpo contro la giustizia sarebbe quasi obbligato, per irrigidire il sistema ed evitare sorprese.
Per capire cosa valgono le promesse di ordine e sicurezza, inaugurate da Fini, e prima di lui da Almirante, basti considerare che in Polonia il partito “Diritto e giustizia” ha realizzato così bene il suo nome che ha alterato regole, garanzie, ordinamento giudiziario e competenze. Per questo, il Consiglio giudiziario polacco è stato espulso dall’Encj (European Network of Councils for the Judiciary). Monika Frackowiak, giudice a Poznan, organizzatrice con Medel della “marcia delle mille toghe” a Varsavia, aveva visto giusto, quando tre anni fa prevedeva che il discredito in Europa avrebbe fatto effetto (vedi qui). Non vogliamo ridurci in quel modo anche a Roma. “Culla del diritto”, dicono. Se è così, ha bisogno di una buona manutenzione.
Nella foto: la “marcia delle mille toghe” a Varsavia