Dopo il misfatto, di cui ora vi diremo, va segnalato l’intervento in difesa del governo del noto esperto Sabino Cassese, ridicolo ormai nel suo ruolo di controcanto del potere: “L’Italia” – ha detto – “ha bisogno di una riforma dei controlli: se ne fanno troppi, sono inefficaci, producono solo reazioni di inerzia e autodifesa dell’amministrazione”, e “servono frequentemente solo a soddisfare il desiderio dei controllori di aumentare la propria sfera di influenza”. Ipse dixit, benedicendo il misfatto. Vediamo cosa è accaduto.
Nell’ambito di un decreto di riordino della Pubblica amministrazione, passato piuttosto inosservato, il governo, durante l’esame congiunto delle commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera, ha fatto il suo blitz, presentando un emendamento che elimina i controlli “concomitanti” della Corte dei conti ai progetti finanziati nell’ambito del Pnrr: non avendo i comuni risorse per effettuare verifiche puntuali, si era pensato di usare la Corte dei conti per garantirle in progress, cioè evitando i controlli ex post che possono rallentare la macchina decisionale, se non mandare all’aria progetti mal fatti. Era un modo per snellire la macchina burocratica – ma niente: fedele alla sua filosofia del laissez faire, il governo preferisce dare soldi e poi chissenefrega, lo Stato deve essere impalpabile: perché questa, in sintesi, è la ratio del provvedimento.
Dopo averlo negato qualche giorno prima, Giorgia Meloni non ha dunque resistito alla stretta sui controlli della Corte sulle spese del Pnrr, strada in parte aperta dal precedente governo Draghi con l’invenzione dello scudo erariale, che circoscrive le responsabilità penali dei funzionari ai soli casi di dolo o inerzia, non per colpa grave: il refrain usato in questo caso, oggi come ieri, è sempre quello della “paura della firma” che, in realtà, è una costruzione narrativa per giustificare l’allentamento dei controlli. Lo ha spiegato il presidente della Corte dei conti, Guido Carlino, ascoltato in audizione (chiamato dalle opposizioni nell’inutile tentativo di scongiurare la norma bavaglio infilata nel decreto): “I motivi per cui gli amministratori hanno il cosiddetto timore della firma non sono da ricercare in responsabilità amministrativa ma in confusione legislativa, la scarsa preparazione dei dipendenti stessi, gli organici ridotti all’osso”. Punto. Ma, si sa, le narrazioni sono più forti della realtà.
Quanto accaduto è ben più di uno sgambetto: si tratta di una rottura della linea della separazione dei poteri imposta in modo brutale, cioè assumendo che la Corte dei conti sia un organo della Pubblica amministrazione, sebbene palesemente non sia così, collocata dalla Costituzione tra gli organi ausiliari dello Stato.
La decisione mostra l’insofferenza della destra al sistema dei controlli: c’è da aspettarsi il prosieguo lungo questa via, a vantaggio dei poteri più forti. L’insofferenza è palese nei confronti di ogni tipo di controllo, anche nei confronti dei flebili richiami del garante della Costituzione per la scarsa omogeneità dei decreti legge – appunto subito disattesi con gli emendamenti sulla Corte dei conti. Il costituzionalista Gaetano Azzariti ha parlato di hybris, piuttosto che di autoritarismo: è la “sindrome di chi prende il potere, magari per la prima volta, e lo esercita, come dicevano i greci, con tracotanza, prepotenza, superbia”. Come che sia, siamo solo all’inizio.