Piove sugli anniversari di altre piogge, com’è abbastanza normale; e si allagano i ricordi e gli anniversari di altre memorabili alluvioni com’è un po’ meno normale. Perché le piogge sono quelle che hanno da essere, quelle del cambiamento climatico che è stato lasciato correre indisturbato e, di conseguenza, scatena quegli eventi estremi che la scienza aveva previsto, e di cui la tragedia romagnola è stata l’ultima delle conferme. L’Italia è un Paese che si sta rapidamente tropicalizzando. La verità però è molto più amara: obbliga a domandarci perché a ogni evento meteorologico più o meno grave è sistematicamente associato un disastro, i morti, le frane. Questo è molto meno causale e, a guardar bene fino in fondo, si scopre che in realtà è provocato, e, quanto più a fondo si guarda, più evidenti appaiono le “colpe” di tanta fragilità: quella di territori sempre più impermeabilizzati, di coste murate da un paese che si estende ininterrotto dai lidi ferraresi a Riccione, le campagne ormai urbanizzate in pianura e in collina, sventrate le montagne da un pettine implacabile di viadotti e strade, pressoché derivate tutte le sorgenti, da molte dighe in cui sedimentano quelle che una volta erano le nostre spiagge. Tutte cose note, che un sistema mediatico asservito a editori spregiudicati occulta, un’informazione prigioniera del dogma dell’eterna crescita, per cui tutto quel cemento e asfalto fa Pil, così come “fa crescita” riparare i danni che inevitabilmente arrivano.
Si provò nel 1989, esattamente trentaquattro anni fa, a fermare questo girone infernale in cui il capitalismo ha incanalato l’umanità arrivando a una legge molto seria, la legge sulla difesa del suolo 183, con le sue autorità di bacino e la sua gestione integrata dell’acqua e della terra. Un provvedimento mai applicato, lasciato lentamente cadere nell’oblio, quando l’egemonia liberista dettò le nuove regole, per cui il solo parlare di pianificazione era considerato, a destra come a sinistra, un reato.
Sfido chiunque a ritrovare un richiamo a quelle norme sui giornali o nei tossici talk show della sera. Qualche decisore politico dell’opposizione l’ha forse richiamata per provare a orientare la ricostruzione? Non vorrei però essere polemico, perché al di là delle critiche profonde che da sempre ho rivolto a chi ha amministrato e governa ora la Regione, sono nato e cresciuto in quelle terre, e vedere le pianure in cui ho vissuto sommerse d’acqua, le colline che separano la Romagna dalla Toscana ferite da frane e smottamenti, mi procura un senso di smarrimento che scoraggia la voglia di polemizzare e ribadire che il disastro era da tempo annunciato. E ancora di più mi struggono gli sguardi dei miei conterranei, i pochi che se la sentono di dire due parole in televisione, pieni di disperazione per la paura di dovere ricominciare da zero per ritrovare quella qualità della vita che avevano raggiunto, e che forse è essa stessa da ridiscutere per i suoi aspetti di insostenibilità che hanno contribuito al disastro.
Forse ascoltare di più noi ambientalisti, quelli che si ispirano all’ambientalismo scientifico, avrebbe non evitato ma ridotto le dimensioni della catastrofe. Sono consapevole che dirlo ora non ha alcun senso, ma ne ha tanto se si pensa al futuro e a come ricostruire la nostra terra. Che vuol dire che il disastro era annunciato? Per capirlo basta analizzare con spirito critico la gestione della terra e dell’acqua fatta da chi amministra la regione e i comuni, la loro scelta consapevole di ignorare il cambiamento climatico, di negarsi nei fatti a decidere misure per mitigarne la corsa, o almeno adattarsi ai cambiamenti già consolidati ormai irreversibili. Una sottovalutazione della tempesta che si stava materializzando per paura che i cambiamenti necessari a prevenirla facessero perdere consensi, ma anche – assai più colpevolmente – per non scomodare interessi potenti. Non appaga quindi la coscienza salire su un piedistallo e ripetere “l’avevo detto”. Al contrario, mi riempie di rabbia non essere riuscito a convincere chi ha il dovere di decidere a cambiare rotta, a immaginare un nuovo modello di sviluppo capace di far vivere bene la collettività prevenendo, però, i rischi a cui ciò che si decide la espone.
Il tema ora è il che fare, decidere la direzione di marcia che si vuole dare alla ricostruzione. Ci si apra dunque a un confronto vero, che non escluda nessuna forza, nessuna cultura politica. Va aperto un confronto smettendo di mettere la testa nella sabbia, ricercando responsabilità ridicole, tutte ovviamente scaricate sul movimento ambientalista, per avere difeso le nutrie, essersi opposti alla cementificazione degli argini o alle casse di espansione e quant’altro. Ci si sforzi, dunque, di riportare il confronto su binari di serietà.
Il primo punto che vorrei proporre alla discussione è uscire il prima possibile dalla logica emergenziale. C’è ancora molto da fare per liberare dal fango il territorio, per analizzare quel fango che già sarebbe un buon indicatore della qualità delle acque che arriva in mare. Ma la fase emergenziale deve finire qui: e avere una protezione civile e un corpo dei vigili del fuoco – oltre alle migliaia di volontarie e volontari – così efficiente e generoso ci aiuta a sperare che si chiuda in fretta questa fase più dolorosa per chi è stato colpito dalla furia delle acque.
Bisogna uscirne allora in due modi. In primo luogo smettendo di pensare a ciò che è successo come a un evento straordinario, quasi irripetibile, per cui basta trovare le risorse per risarcire i danni e ricostruire tutto esattamente come prima. La seconda questione è conseguente alla prima, e cioè a chi affidare la ricostruzione. Puntare a un commissario, chiunque sia, o scegliere di farla gestire agli strumenti ordinari che le leggi offrono, in questo caso le autorità di bacino che, secondo la dimenticata legge 183, hanno il duplice compito di difendere la popolazione dalle acque e, contemporaneamente, garantire la qualità delle acque, l’uso che se ne fa, a chi darle.
Piogge eccezionali e imprevedibili? Giusto dire che ha piovuto tanto, sbagliato sostenere che era impossibile prevederlo. La scienza aveva avvertito che senza significative riduzioni delle emissioni climalteranti l’intero pianeta sarebbe stato esposto a eventi estremi sempre più frequenti, e dovremo imparare a convivere con lunghi periodi di siccità seguiti poi da precipitazioni improvvise e concentrate, come quelle che si sono abbattute sull’Emilia-Romagna. Non a caso le chiamiamo “bombe d’acqua” per significare che, in pochi giorni, cade la pioggia che prima cadeva in molti mesi. È evidente che il bacino scolante che le riceve non è in grado di smaltirle, visto che fatica a gestire qualsiasi pioggia, normale o eccezionale che sia.
La ricostruzione che va progettata deve dunque misurarsi, per essere efficace, con queste piogge e pianificare la difesa dalle acque a questo livello di rischio. Non lo dice solo la scienza, ma la realtà: la Romagna è solo l’ultima delle tragedie che hanno colpito il Paese, pochi mesi prima le acque e le frane avevano travolto le Marche, inghiottito un pezzo di Ischia, dissolto il ghiacciaio della Marmolada.
Altrettanto dirimente è la scelta su quale figura istituzionale deve organizzare e gestire la ricostruzione. Si punta a far coordinare la sua gestione a un commissario straordinario o ci si affida agli strumenti che governano il territorio? Nel primo caso si punta a una ricostruzione centralizzata, che punta a rifare tutto com’era prima. Nel secondo a decentralizzare, e quindi ad affidare e rendere protagonisti della rinascita dei territori alluvionati i decisori che vivono e gestiscono il territorio. Forse puntare sulla mobilitazione dei territori non significa che la bussola della ricostruzione sarà la lotta al cambiamento climatico, ma sicuramente le offre più possibilità, perché più democratica e coinvolgente.
Governare i fiumi che convogliano verso il mare le acque di pioggia che sono defluite dalle colline e dalle pianure significa progettare una difesa dalle piene per l’intero bacino idrografico, andando oltre i confini regionali e l’area territoriale che è stata colpita. Perché decidere di alzare un argine, o rinforzarlo con cemento per difendere una città che sta a monte, aumenta la velocità di scorrimento del fiume ed espone a piene disastrose chi vive più a valle. Insomma, il piano di rinascita e difesa dalle acque deve avere dimensione di bacino, come previsto dalla legge 183, e va affidato all’autorità di bacino che riunisce tutti i centri decisori che operano sull’intero bacino idrografico.
Chi dice che aprire il confronto su questo fa perdere tempo, e per questo si cerca di eluderlo, deve sapere che ricostruire tutto esattamente com’era prima lascia comunque esposta a rischi molto alti la popolazione, perché l’evento può ripetersi incontrando la stessa fragilità del territorio che c’era prima. E allora, anziché dividersi su chi debba essere il commissario, si decida di rendere protagonisti gli amministratori locali raccolti nelle autorità di bacino, avviando anche una consultazione permanente delle forze sociali, dai sindacati alle associazioni ambientaliste e del volontariato.
Infine, un ultimo spunto di riflessione per chiarire in cosa consista un piano di difesa da alluvioni e frane. Si tratta solo di opere da realizzare o di programmare una diversa corretta gestione di un territorio? In altre parole, ci si difende solo alzando ancora di più gli argini, cementificandoli, costruendo vasche di laminazione, dighe, sbarramenti, o destinando le risorse per finanziare i tre capisaldi di una politica di prevenzione: la conoscenza del territorio, la sua manutenzione e rinaturalizzazione e la diffusione su di esso di presidi tecnico-scientifici?
Conoscere, per fornire una carta del rischio, a scala 1:5000, che dica con chiarezza a chi amministra dove si può costruire e dove no, e quanta terra vada restituita al fiume anche delocalizzando abitazioni e attività per garantire più sicurezza alla cittadinanza. Manutenere e rimboschire per facilitare il migliore deflusso delle acque e il più efficace consolidamento delle frane. Inoltre, presidi tecnici permanenti in ogni bacino idrografico al servizio delle autorità di bacino per informare costantemente le popolazioni e chi le amministra sullo stato del territorio e sulle conseguenze di una perturbazione e, infine, per fornire i dati tecnico-scientifici al piano di bacino.
Per ora né dal governo né dalla Regione è emersa questa volontà di confronto, per cui l’obiettivo è rifare il prima possibile tutto come prima. È un’occasione persa per fare della lotta al cambiamento climatico una priorità programmatica preferendo di rafforzare, nella cosiddetta transizione ecologica, il ruolo del gas con la metaniera al largo di Ravenna. Non resta che chiedersi in quale girone infernale sia sprofondata la coscienza civile di questa classe dirigente, che nega le risorse alla prevenzione e alla tutela della sicurezza collettiva per dedicarle, invece, alla costruzione del ponte sullo Stretto.