Giorgia Meloni sarà contenta. Perché alle elezioni amministrative di domenica 28 maggio in Spagna la sinistra è uscita con le ossa rotte, a vantaggio di una destra composta dai popolari e dalla forza apertamente neofranchista, Vox. Quella dell’adunata alla quale partecipò l’attuale inquilina di Palazzo Chigi che, al grido di “yo soy una madre, una mujer y una cristiana”, dimostrò che il fascismo è nel suo Dna e “nessuno glielo può togliere”. Come dicevamo, socialisti e sinistra radicale sono usciti sconfitti nel voto per le comunità autonome e i comuni, che ha visto un’affluenza alle urne di poco superiore al 50%: dunque bassa, all’italiana per intenderci. Il Partito socialista operaio spagnolo (Psoe) prende il 28,11%, arretrando così solo dell’1,15%, di fatto quasi nulla. Ma sono il Partido popular (Pp), e appunto Vox, ad aumentare i consensi, passando il primo al 31,5% – cioè più 9,27% rispetto alle elezioni del 2019 –, mentre l’estrema destra arriva al 7,18%, con un incremento del 4,28%.
La scomparsa del partito liberale Ciudadanos, che dall’8,35% è passato all’1,35, ha favorito solo la destra. Il Psoe perde così il governo di quattro delle dieci comunità autonome, ora nelle mani dei popolari costretti per governare a fare alleanze con Vox. Come reazione, per la verità inaspettata, il premier Pedro Sánchez ha sciolto le Camere, come prevede la Costituzione, e anticipato l’appuntamento elettorale d’autunno al 23 luglio. Difficilissimo capire se ciò gli porterà dei vantaggi, evitando così di essere cotto a fuoco lento, o se un maggior tempo a disposizione avrebbe permesso alla coalizione, e soprattutto alla sinistra di Unidas Podemos, di rimettere insieme i cocci.
Si tratta anche di una sfida al proprio elettorato di riferimento, che chiede agli spagnoli e alle spagnole se vogliono o meno continuare con un esecutivo che, soprattutto sulle tematiche inerenti al lavoro – certo non un tema secondario –, ha preso decisioni importanti contro la disoccupazione e la precarietà, oltre che alle forze alla sua sinistra, le quali faticano a mettere fine a divisioni spesso incomprensibili, e che ora avranno poco tempo a disposizione per risolvere i loro problemi. La decisione è stata presa quando la Spagna si accinge ad assumere – il prossimo primo luglio – la presidenza di turno dell’Unione europea. A sinistra, le reazioni a questo voto anticipato sono state in un primo momento positive, sia da parte di Sumar (“aggregare, unire”) della ministra del Lavoro, Yolanda Díaz, sia del leader di Izquierda unida, il ministro del Consumo Alberto Garzón, e anche della segretaria di Podemos, la ministra dei Diritti sociali, Ione Belarra.
Il punto è proprio qui. Della coalizione di governo Podemos è quella uscita peggio dal confronto elettorale. La spinta propulsiva – iniziata nel 2011 con il Movimiento 15-M, noto anche come movimento degli indignados, che si tradusse nella fondazione di Podemos nel 2014, guidato da Pablo Iglesias – è terminata. I dati più significativi sono la sconfitta di Ada Colau a Barcellona, sia pure per pochissimi voti, dove è arrivata solo terza – e appunto di Podemos in generale, che nei parlamenti regionali a Madrid, Valencia e Canarie, non ha superato lo sbarramento del 5% per entrare nel consiglio comunale e nelle altre realtà amministrative.
Ora la sinistra, visti i tempi stretti determinati dalle elezioni anticipate, sarà costretta ad accelerare una ricomposizione determinante per l’eventuale riconferma della coalizione di governo. Il conflitto più importante riguarda proprio Podemos, che paga ancora il prezzo delle dimissioni del suo fondatore Pablo Iglesias, e l’attuale ministra del lavoro Díaz la quale, forte della sua popolarità, vorrebbe essere la candidata premier, per quanto appaia troppo spostata a sinistra per essere vincente.
Diverse le ragioni che hanno aperto la strada a una destra pericolosa, che tuttavia non può ancora cantare vittoria. Basti dire che, come ovunque, la forte astensione ha, o avrebbe, penalizzato la sinistra, malgrado – lo ripetiamo – sotto molti aspetti abbia lavorato bene. Non è corretto fare un confronto con il voto del 2019, quando la partecipazione al voto superò il 60%, in quanto si votò anche per le europee dove si candidarono i leader catalani indipendentisti in carcere o esiliati. Nonostante il buon lavoro effettuato dal governo, soprattutto nei dicasteri guidati dalla sinistra della coalizione, non è stata tuttavia evitata la sconfitta. Le conquiste, evidentemente, non sono state sufficienti a fronte della crisi economica, dell’inflazione (scesa comunque al 3,2% contro il 4,1 del mese scorso) e degli aumenti degli affitti, che hanno spinto molti elettori di sinistra a disertare le urne.
Ma forse più ancora ha fatto breccia, nella testa degli spagnoli e delle spagnole, l’accusa della destra contro i socialisti e i suoi alleati di essere troppo succubi alle richieste degli indipendentisti catalani e baschi. Ancor più dopo la decisione di Bildu, coalizione di partiti politici spagnoli operativi nel Paese Basco, di candidare una quarantina di ex detenuti (una decina dei quali per gravi fatti di sangue) dell’Eta, storica organizzazione terroristica basca, nel Paese Basco e in Navarra. Un errore gravissimo – e a nulla è servito tentare di rimediare al danno con la promessa dei candidati, una volta eletti, di rinunciare al seggio. La frittata era stata fatta per la felicità, oltre che dei partiti di destra, dei media legati all’opposizione.
A questo bisogna aggiungere il solito spauracchio dell’immigrazione che, a onor del vero, Sánchez non ha gestito in maniera permissiva (si vedano i gravi episodi delle enclave di Ceuta e Melilla). E ancora il forte movimento per le occupazioni delle case, sostenuto dalla sinistra e stigmatizzato dalla destra, che ha evocato lo spauracchio del “sequestro” delle case di prima e seconda residenza, malgrado si trattasse di notizie completamente false.
Con la sua decisione, Sánchez forza i tempi per ripresentarsi davanti agli elettori e alle elettrici con un’immagine vincente. Ma così i margini temporali sono strettissimi anche per il premier, che deve decidere di ripresentarsi per rinnovare la sfida alla destra, oppure proporre un nuovo candidato che possa degnamente sostituirlo. Visto il buon governo, che Sánchez rivendica, appare più probabile la prima ipotesi.