Avevamo scritto “elezioni complicate in Grecia” (vedi qui), ma i risultati usciti ieri dalle urne non potevano essere più chiari. Anche se la formazione conservatrice Nea Dimokratia (Nuova Democrazia) del premier uscente, Kyriakos Mitsotakis, già eletto nel 2019, non eviterà il “ballottaggio” (previsto per il 25 di giugno o il 2 di luglio), il quadro che traspare non lascia adito a dubbi. Il 41% dei consensi sono andati appunto alla destra. Un risultato straordinario se consideriamo che la sinistra di Syriza di Alexis Tsipras non è andata oltre il 20%, facendosi così doppiare dai suoi avversari, malgrado i sondaggi – ancora una volta risultati inaffidabili – avessero previsto un distacco tra i due partiti valutato tra il 4 e il 6%. A poco potrebbe servire il buon risultato dei socialisti del Pasok-Kinal, presieduto da Nikos Androulakis, che ha raggiunto l’11,6%, anche perché quest’ultimo pretenderebbe di sostituirsi al leader di Syriza come candidato a premier della sinistra, sostenendo la sua contrarietà all’idea che i due ex possano di nuovo ricoprire quel ruolo. Dal canto suo, il premier uscente ha rifiutato l’ipotesi di un mandato esplorativo, preferendo affidarsi a un secondo turno, con la previsione di un netto successo.
Com’è noto, per chi segue le vicende elleniche, il sistema elettorale appare quanto meno originale. La destra avrebbe voluto un sistema maggioritario, che avrebbe garantito con un turno solo un governo in virtù dei cinquanta seggi in più assegnati al vincitore. Un’ipotesi osteggiata dalla sinistra. Da qui il compromesso, ovvero l’introduzione del maggioritario al secondo turno anche perché, in questo caso, entrambe le principali formazioni hanno rifiutato di presentarsi all’interno di coalizioni. Dopo i tre principali partiti, si sono collocati i comunisti del Kke (7%), ostili a ipotesi di alleanza con Syriza; Greek Solution (4,5%) di estrema destra; mentre la piccola formazione di sinistra MeRA25, dell’ex ministro delle Finanze, Yanis Varufakis, non avrebbe superato la soglia del 3% necessaria per entrare alla Camera, che conta trecento seggi.
La partecipazione si è attestata al 56,1%, una percentuale quasi identica a quella delle elezioni del 2019. Un Paese che registra, dunque, una disaffezione alle urne simile alla nostra, segno evidente di una ostilità ai partiti in generale che, per un verso o per un altro, si sono rivelati incapaci di mettere un freno all’aggressività della “troika” – l’organismo formato dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale – che ha costretto la Grecia a mettere in ordine i propri conti. L’operazione è terminata il 20 agosto scorso – dopo dodici anni di “sorveglianza speciale” da parte di queste istituzioni –, avendo Atene restituito in anticipo l’ultima rata del prestito, pagando a carissimo prezzo questo risultato in termini di costi sociali e, conseguentemente, con un astensionismo in aumento.
Tuttavia, la fine dell’ingerenza internazionale, da un lato, e l’alto tasso di crescita dell’economia dall’altro – al 5,9% –, hanno spinto l’elettorato a evitare un salto nel buio ribadendo la propria fiducia al governo. Un gradimento che non è stato minato più di tanto dallo scandalo dello spionaggio, che abbiamo ampiamente documentato, e dalla tragedia ferroviaria di Tebi del febbraio scorso, in cui cinquantasette persone hanno perso la vita, costringendo il ministro delle Infrastrutture e dei Tasporti, Kostas Karamanlis, alle dimissioni. Mitsotakis è un politico navigato, membro di una famiglia già da sempre impegnata in tal senso. Laureato a Harvard, 55 anni, con un passato da analista economico nella Chase Bank di Londra, uno dei massimi organismi finanziari internazionali, appartiene a una longeva dinastia politica greca: il padre, scomparso nel 2017, è stato a sua volta premier dal 1990 al 1993, mentre il nipote è l’attuale sindaco di Atene.
Il dato più clamoroso di questa tornata elettorale è comunque il risultato catastrofico quanto imprevisto di Syriza. Tsipras aveva sperato nel voto giovanile, ma anche in questo caso ha prevalso la disillusione. La “Coalizione della sinistra radicale” sta ancora pagando il prezzo del fallimento del 2015, quando tentò di arginare l’austerità imposta dalla “troika” senza risultati, deludendo la popolazione, pur mantenendo nel voto del 2019 consensi ragguardevoli, con più del 31%. Nel frattempo il partito, che a Strasburgo siede ancora nel gruppo della Sinistra radicale (Gue), ha conosciuto dei mutamenti importanti. C’è chi è uscito preferendo impegnarsi nel sociale e chi, invece, vi è entrato provenendo dal Pasok, accentuando così l’identità socialdemocratica del partito. E qui sta il punto. Quale futuro aspetta la sinistra greca? Un unico partito socialista, senza una sinistra radicale, che potrebbe però nascere da una scissione a sinistra di Syriza? Difficilissimo prevederlo in un quadro che dovrà essere riconsiderato nella sua interezza. Resta la difficoltà per una sinistra europea – dalla Scandinavia ad Atene, passando per l’Italia e, forse prossimamente, per la Spagna – che non fa ben sperare per le europee del 2024.