Occorre sospendere il giudizio sul Pd di Elly Schlein. Si può infatti essere critici finché si vuole della nuova segretaria (vedi qui e qui), ma è senz’altro vero che la situazione del partito di cui ha preso la leadership, con il solito meccanismo semi-plebiscitario delle “primarie” (dove le virgolette stanno a indicare una cattiva imitazione di ciò che avviene negli Stati Uniti), non consente di farsi illusioni su una sua rapida ripresa. Si tratta di un corpo politico fortemente diviso: in fondo, la scelta degli iscritti era stata maggioritariamente per Bonaccini. Inoltre, all’interno di questa divisione, c’è una componente di derivazione renziana che non aspetta altro se non di provocare una scissione, andandosene al momento opportuno, o, preferibilmente, spingendo fuori proprio il gruppo di Schlein. Diciamo che per il momento gli avversari sono in attesa di vedere come si mette. Il banco di prova sarà, ovviamente, quello delle elezioni europee del 2024.
Intanto, la combattiva Elly deve misurarsi con ciò che accade nei territori, dove, nonostante ogni cosa dimostri che soltanto l’unità può avere degli effetti elettorali non negativi, c’è da confrontarsi con la mai del tutto sopita mania isolazionista dei 5 Stelle (e di Conte, a questo punto), che vorrebbero essere loro ad avere la guida dell’opposizione. Idea, a questo punto, piuttosto peregrina: perché metà del loro elettorato, com’era prevedibile, o è ritornato a destra o si è ritirato nell’astensionismo. Diciamo che oggi la contesa, tra le due opposizioni, consiste in questo: chi, tra il Pd di Schlein e i 5 Stelle di Conte, riuscirà ad assorbire maggiormente l’astensionismo provocato dalla delusione generata da un trentennio di populismi vari, come pure dalla involuzione del Pd, prima con Renzi, e poi con la completa inazione degli anni da Zingaretti a Letta.
È insomma una quadratura del cerchio, quella con cui ha a che fare la povera Elly. A Brescia, per dirne una, il Pd vince al primo turno con una coalizione moderata che esclude i 5 Stelle – e, in mancanza di meglio, che cosa si potrebbe obiettare? A Pisa, però, solo il “blocco” tra il Pd e i 5 Stelle riesce a evitare un’incredibile riconferma del sindaco leghista, rimasto a soli quindici voti dalla vittoria (ma è stato chiesto un nuovo conteggio delle schede). In altre parole, Schlein è costretta a muoversi “a geometria variabile”, come si dice, perché finora è mancata una volontà comune di costruire un’alleanza stabile, politicamente motivata, tra le due forze di opposizione.
Eppure grandi differenze programmatiche non ci sarebbero: entrambi i contendenti – il Pd schleiniano e i post-populisti contiani – sono per il salario minimo, per una forma di reddito di cittadinanza, per una lotta al precariato, per i diritti civili, soprattutto in materia di riconoscimento delle coppie Lgbtq. L’impossibilità di mettere su un programma comune è derivata finora semplicemente dalla rivalità elettorale. Ma a Conte le cose non stanno andando affatto bene, e, più in generale, va considerato che non sarà possibile riassorbire una porzione consistente dell’attuale astensionismo se non mettendo da parte le divisioni. Sarebbe il compito prioritario. Già nei ballottaggi, nelle città che ritorneranno al voto il prossimo 28 maggio, si vedrà chiaramente come – pure al netto di un ulteriore abbassamento della quota di coloro che si recheranno alle urne – i due elettorati siano tra loro sommabili, e come anzi la loro mescolanza sia la condizione di qualsiasi affermazione possibile.