Si sa che la questione meridionale è da sempre questione nazionale – e ora, si potrebbe dire, europea. Lo è così tanto che perfino Draghi, presidente del Consiglio di un governo che esprime in larga misura gli interessi del blocco borghese del Nord (e di un partito, la Lega, che prima di trovare negli immigrati stranieri il nuovo capro espiatorio, proprio intorno al distacco dai meridionali puzzolenti aveva costruito le sue fortune politiche), ha dovuto riconoscere in un suo recente intervento che il divario tra le regioni del Sud e quelle del resto del paese è enormemente aumentato negli scorsi decenni, e che tra il 2008 e il 2018 la spesa per gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno “si è più che dimezzata”. In proposito, è accaduto a chi scrive di parlare una volta di uno “sviluppo del sottosviluppo”, con riferimento a un’economia della miseria civile, guidata dalla criminalità organizzata, che caratterizza una città come quella partenopea, in cui il riciclaggio del denaro sporco, nella gestione di locali pubblici o nella compravendita degli immobili, spetta a un ceto di persone insospettabili e perbene.
Adesso si tratterebbe di spendere con giudizio i fondi europei. Per esempio evitando di rilanciare progetti faraonici del tutto insostenibili, dal punto di vista ambientale, come il ponte sullo Stretto; e pensando invece alle infrastrutture ordinarie, come quelle della viabilità e di una rete ferroviaria in stato di completo abbandono al di sotto di Napoli. È possibile, anzi probabile, che qualcosa di questo si farà. È infatti anche nell’interesse dei produttori di merci del Nord del paese che nel Mezzogiorno ci si possa muovere più agevolmente. Ma, per il resto, non è affatto molto probabile che si realizzino investimenti pubblici all’altezza dei bisogni.
Per esempio, è in corso da anni una nuova forma di emigrazione meridionale, che non consiste più come un tempo nel partire da diseredati, con la valigia legata con lo spago, per stabilirsi a Milano o a Torino, subendo poi l’onta del razzismo antimeridionale. Consiste piuttosto nel pendolarismo di una forza-lavoro spesso acculturata, con competenze talvolta notevoli, che nella precarizzazione selvaggia dei lavori è costretta a spostarsi di qua e di là all’inseguimento delle occasioni di reddito. Per porre termine a questo e ad altri fenomeni di dissipazione delle risorse, sia umane sia naturali, occorrerebbe un deciso mutamento di rotta nel modello di sviluppo. Sarebbe indispensabile un sostegno concreto e su larga scala a forme di associazionismo, oggi nel Mezzogiorno pressoché assenti, che consentano anche al Sud l’emersione di un’imprenditoria del privato sociale. Sarebbe urgente, inoltre, una difesa a oltranza di ciò che rimane di “non edificato” su coste come quella della Calabria o della Sicilia, divenute da tempo i luoghi di uno sfruttamento vacanziero intensivo in totale disprezzo delle pur rinomate bellezze naturali.
Sono soltanto degli esempi, ovviamente. Però una cosa va sottolineata con forza: un’economia della miseria civile, come quella guidata dalla criminalità organizzata, si batte con un progetto di economia della rinascita civile che non può non avere al centro una forma di scontro sociale e politico con il blocco borghese del Nord. Non si può pensare che, Nord e Sud, siano semplicemente “sulla stessa barca”. Le paurose diseguaglianze territoriali italiane sono diseguaglianze sociali che vanno progressivamente ridotte e infine eliminate del tutto. Non è accettabile che, nel ventunesimo secolo, il Pil pro capite – dati del 2018, cioè di prima della pandemia – sia fermo nel Mezzogiorno a 19mila euro (in Calabria solo 12mila e qualcosa) contro i 36mila del Nordovest.