Come Marx aveva intuito nei Grundrisse, con la metafora del pianoforte, saranno il compositore e l’interprete delle musiche che determineranno il valore dello strumento più che il suo fabbricatore. Nel deserto di protagonismi conflittuali della società digitale, si accendono i primi falò di contrattazione attorno all’algoritmo. In Italia, nel silenzio generale, soprattutto della politica, abbiamo visto come l’ufficio del garante della privacy sia riuscito a imporre al gigante Microsoft, il proprietario di ChatGPT, l’adeguamento alle norme che disciplinano l’uso dei dati e la reciprocità delle relazioni fra utente e piattaforma. I nove punti contestati dall’authority del nostro Paese sono stati tutti recepiti dal potente marchio americano. Due, in particolare, centrano proprio il core business: la possibilità di inibire, da parte di qualsiasi cittadino, ma anche di gruppi sociali o comunità territoriali, l’uso dei propri dati per addestrare l’agente intelligente. Significa impedire che su argomenti di nostro interesse sia OpenAI a decidere quale impostazione dare al machine learning dell’intelligenza artificiale.
L’altro punto che cambia significativamente lo scenario riguarda il possibile contenzioso giudiziario. La base per il giudizio dei magistrati non sarà più il consenso che ognuno di noi presta distrattamente, cliccando in coda a un illeggibile modulo, ma il consenso reale che si matura al momento stesso di usare il dispositivo. Siamo noi che decidiamo che la macchina ci sta danneggiando, e non una nostra precedente adesione alle regole del sistema.
Contro queste richieste, che affermavano il semplice diritto di un Paese, in assenza dell’iniziativa di altre strutture comunitarie, di esigere il rispetto delle norme, tanto più in una materia così delicata e sensibile qual è la relazione fra grandi apparati digitali e i singoli cittadini, si è scatenato l’inferno. Illustri opinionisti e lucidi professoroni – in gran parte anche di esibita professione progressista, se non proprio di sinistra – hanno gridato allo scandalo per un rigurgito sovietista che avrebbe imbavagliato l’intelligenza artificiale nel nostro Paese, costringendo alla macchia aziende e professionisti che vi lavorano già da tempo.
Un riflesso non dissimile da quanto accadde nell’aprile del 2020, nel pieno della prima feroce fase della pandemia, quando si chiese di derogare ad alcune prerogative della privacy per rendere più efficace l’app di localizzazione dei contagiati “Immuni”. Anche in quell’occasione, in cui erano in ballo i destini di decine di migliaia di possibili vittime, si sollevò il vento dell’ovest, rivendicando il sostegno alle ragioni di Google e Apple, i titolari dei due sistemi operativi che monopolizzano il mercato degli smartphone, che avevano inibito al governo italiano di adottare sistemi basati sulla geo-referenziazione per localizzare i possibili focolai di infezione. E infatti “Immuni” si rivelò del tutto inutile, a volte persino dannosa, concorrendo ad aumentare il numero delle vittime.
Come scrive Mariana Mazzucato nel suo Lo Stato innovatore, “se lo Stato non produce senso come si fa ad avere senso dello Stato”. E potremmo aggiungere: se la sinistra non guida questi nuovi processi di riorganizzazione dei poteri sociali, come si fa ad avere aspettative nei suoi confronti? Il problema, a questo punto, non è più quello dell’arretratezza culturale di certa sinistra, ma dell’organico interesse a non turbare equilibri e prerogative di grandi poteri economici e culturali.
L’assoluto disinteresse del nuovo giovane vertice del Pd intorno a questi temi, contrariamente alle promesse che la personalità della nuova segretaria aveva alimentato con la sua indiscutibile dimestichezza con i linguaggi digitali, preoccupa. Nell’intervista rilasciata alla “Stampa”, Elly Schlein continua a considerare il mondo digitale solo per lo sfruttamento dei riders. Sicuramente un caso di indecente speculazione da parte delle imprese che gestiscono le consegne, ma l’arbitrato dell’algoritmo sulle nostre vite presenta aspetti ancora più inquietanti, su cui un partito di sinistra non può non intervenire, tanto più quando si propongono nuovi spazi per un’iniziativa democratica che civilizzi i processi innovativi. Non si tratta di limiti anagrafici, ma di inibizioni politiche, la cui origine dev’essere chiarita. Perché i nuovi e giovani dirigenti democratici stanno evitando ogni attrito con i poteri digitali? Anche ora che sono direttamente i proprietari del sistema incriminato a riconoscere come siano fondate le ragioni dell’istituzione italiana: per la prima volta, uno dei maggiori protagonisti della scena digitale – Microsoft, il titolare finale di tutta la catena che arriva a ChatGPT – accetta di negoziare con le richieste di un Paese, uniformandosi alle sue leggi. Una svolta che non mancherà di avere conseguenze. Sempre che sia riconosciuta dalla politica e dai sistemi sociali nazionali ed esteri. Si apre la porta a una prima negoziale, che mira a ridisegnare le forme della tecnologia.
Tanto più che negli Stati Uniti si sta aprendo un portone. In queste settimane sono sul piede di guerra le potenti lobby degli attori e degli sceneggiatori, spalleggiati anche da grandi registi, come Steven Spielberg, che vogliono negoziare le modalità di integrazione delle diverse forme di intelligenza artificiale nel ciclo produttivo cinematografico. In meno di un anno, con la comparsa di soluzioni multimediali in grado di sostituire intere categorie, come i doppiatori o gli stessi sceneggiatori, o ancora i tecnici delle luci e gli architetti del suono, Hollywood è diventata una polveriera. Netflix è stato il battistrada, con le sue riserve inesauribili di dati, raccolti tramite la piattaforma di fruizione dei film e delle serie è ormai in grado di addestrare intere batterie di agenti intelligenti per produrre film e serie assolutamente targettizzati, cioè calibrati proprio sui gusti di specifici gruppi sociali o culturali. I cinematografari americani chiedono di poter condividere con i produttori la selezione dei sistemi automatici, in modo da poter concertare il modo in cui vengono addestrati, e le discriminanti che vengono loro fornite.
In sostanza, si tratta di discutere di due snodi centrali: il machine learning, ossia quale percorso debba seguire un sistema (come appunto ChatGPT) nel suo apprendimento. A Hollywood si chiede di accompagnare questa progressione con figure artigiane che possano ottimizzarne la resa e l’integrazione, senza stravolgere gli aspetti sensibili della creatività dell’opera audiovisiva. E la separazione, netta e visibile, dei prodotti tutti automatici da quelli realizzati con il lavoro artigiano dagli autori delle diverse specializzazioni. Uno snodo che riduce lo spazio per le manipolazioni, e restituisce un certo valore di mercato alle attività autoriali. Torna così centrale il problema che poneva Walter Benjamin nel suo celebre saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,quando metteva in discussione valore e aura che la riproduzione poteva salvaguardare o distruggere.
Se proiettiamo queste fondamentali questioni sullo scenario del giornalista o del medico, accerchiati ormai dall’automazione dei sistemi di autoapprendimento, comprendiamo bene come la partita aperta sulla collina di Los Angeles sia quanto di meno frivolo e astratto ci sia. Per tornare a Marx, stiamo discutendo di come il musicista possa collaborare con l’accordatore di pianoforti, e come possa negoziare con il produttore la serialità automatica di alcune delle componenti dello strumento. Su questa musica balleremo tutti nei prossimi anni.