Il giorno della marmotta, con un indimenticabile Bill Murray e il suo remake italiano È già ieri, protagonista Antonio Albanese. Sono film che sfruttavano in chiave di commedia l’ipotesi fantastica di un loop temporale: il protagonista è costretto a svegliarsi ogni mattina nella stessa giornata, e a rivivere gli stessi eventi, cercando disperatamente una via di uscita dalla ripetizione ossessiva del suo destino. Il nostro “giorno della marmotta” collettivo è iniziato con la pubblicazione sul “Sole 24 Ore” di un intervento a doppia firma: Valdis Dombrowskis e Paolo Gentiloni, rispettivamente vicepresidente esecutivo della Commissione europea e commissario per l’economia. Nell’annunciare il varo, da parte di Bruxelles, della proposta di nuove regole di bilancio comuni per i Paesi dell’Unione, “essenziali come base – hanno spiegato i due – per assicurare la necessaria fiducia reciproca” in un’area economica “sempre più integrata come l’Unione europea”. Bontà loro, i due alti funzionari continentali riconoscono che “la nostra economia deve far fronte a massicci investimenti e riforme per realizzare la transizione verde e digitale”, ma notano anche che “i livelli di debito pubblico sono aumentati notevolmente, in particolare a seguito della pandemia”. È già ieri, appunto: eccolo il nostro eterno “giorno della marmotta”, il rilancio dei dogmi dell’austerità europea, che pure, nella drammatica temperie della pandemia, erano stati provvisoriamente accantonati.
L’emergenza dimenticata
Dato che è stata l’emergenza a dettare le mosse assunte in sede europea, oggi che le varie emergenze economiche (dovute al Covid, ai rincari energetici, alla guerra) sono state in parte tamponate, in parte scaricate sulle fasce medio-basse della popolazione, mentre la ricchezza fluiva verso l’alto, si torna a recitare il mantra del rigore. Nel frattempo, si è smarrita la provvisoria combattività dei Paesi mediterranei (Italia compresa, al tempo del Conte 2), ed è terminata la carriera politica di Angela Merkel, leader conservatrice forse fin troppo celebrata in vita, ma indiscutibilmente di statura politica superiore a quella degli attuali protagonisti della politica europea. Senza il suo faticoso via libera, la prima storica iniziativa di debito pubblico comune lanciata dall’Unione europea per rispondere alla crisi pandemica, non sarebbe probabilmente mai nata. Passata la festa “gabbato lo santo”: tornano i mitici parametri del 3% nel rapporto deficit-Pil, e del 60% debito-Pil; tornano le procedure di infrazione, e i piani di rientro pluriennali, che saranno oggetto di negoziati bilaterali fra la Commissione e le capitali europee; saranno un po’ più flessibili, su quattro o sette anni, ma di fatto bloccheranno la spesa pubblica anche nei settori maggiormente sensibili. Che per l’attuale governo sono gli investimenti per la difesa, e per la maggior parte dei cittadini italiani sarebbero probabilmente, invece, quelli per la sanità e la scuola pubblica, il ripristino di livelli adeguati di turnover nella pubblica amministrazione, da anni sotto organico rispetto alla media dei Paesi più avanzati, una politica industriale credibile e indirizzata a stimolare la transizione ecologica e digitale.
Il ritorno al passato
Si torna all’antico, insomma, come avevamo paventato qui. In realtà, volendo dar corso a un cauto ottimismo, “terzogiornale” aveva dato credito all’ipotesi di una salvaguardia degli investimenti necessari per il rilancio di una economia europea per molti aspetti in ritardo sui protagonisti principali della scena globale, a partire da Stati Uniti e Cina. È interessante notare che la stampa italiana, tradizionalmente più sensibile alle voci governative, ha dato letture divergenti sulla reazione di Roma alla versione definitiva della proposta della Commissione. Mentre “La Stampa” accreditava nella sua titolazione un Giancarlo Giorgetti “soddisfatto”, un “colloquio” del “Corriere della sera” col ministro leghista (di rito draghiano) dell’Economia parla di “ira di Giorgetti”, proprio perché “noi avevamo chiesto l’esclusione delle spese d’investimento, incluse quelle tipiche del Pnrr su digitale e transizione verde, dal calcolo delle spese, obiettivo su cui si misura il rispetto dei parametri. Prendiamo atto che così non è”. L’ira del ministro, però, è causata anche dalle anticipazioni fatte filtrare da Bruxelles sui piani di “risanamento” da imporre a Roma: tra gli 8 e i 16 miliardi di tagli l’anno, a seconda della durata scelta; non a caso lo stesso Giorgetti ha spiegato al “Corsera” che occorrerà “una rigorosa revisione della spesa”. La spending review – torna un altro leggendario totem della religione austeritaria. Accoppiando questa prospettiva con i piani di separazione fiscale e contabile fra Nord e Sud, impliciti nel disegno di legge Calderoli per l’autonomia regionale differenziata, si intravede la non troppo remota possibilità che almeno metà Italia venga ridotta economicamente e socialmente in cenere. Per chiarire che non si tratta di un punto di vista ipercritico, dovuto a pregiudizi di sinistra, basta leggere un solo commento, fra i tanti che la proposta della Commissione ha suscitato, quello di Lorenzo Bini Smaghi, ex componente del vertice della Banca centrale europea: “Si tratta – ha spiegato a “Repubblica” – di un commissariamento della politica di bilancio dei Paesi ad alto debito, in particolare dell’Italia”.
A Berlino non basta
Come si svilupperà ora il confronto? Bruxelles chiede che si chiuda entro l’anno per far entrare in vigore le nuove regole allo scadere della sospensione del vecchio Patto di stabilità e crescita. Ma naturalmente, siccome siamo tornati alla vecchia Europa, l’illusione (per chi l’ha coltivata) di una nuova stagione solidale ed equilibrata della Ue viene sostituita dalla consueta realtà del braccio di ferro fra rigoristi, guidati dalla Germania, il cui rapporto debito-Pil consente larghi margini di manovra fiscale, e mediterranei. La relativa fortuna dell’Italia è che rispetto al passato è cambiata significativamente la posizione francese: il debito pubblico dell’esagono ha da tempo sfondato quota 110% del Pil, era il 64,5, poco più della metà, prima della crisi del 2008. Questo potrebbe consentire di rintuzzare gli attacchi già cominciati da parte del ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, che in un intervento sul “Financial Times” ha chiesto di “rafforzare le regole di bilancio della Ue, non attenuarle”. Una posizione che ha sollecitato una puntuta risposta da parte di un gruppo di economisti e attivisti europei, sullo stesso giornale, secondo i quali l’articolo di opinione di Lindner “mostra quanto poco si sia imparato dal fallito esperimento di austerità europea”. Gli autori ricordano che “i Paesi dell’Unione che hanno perseguito una maggiore austerità e tagli alla spesa pubblica hanno avuto livelli di debito più elevati, perché i tagli hanno portato a una minore crescita del prodotto interno lordo e minori entrate fiscali”.
È il “giorno della marmotta”, e la posizione tedesca, che sarà con ogni probabilità supportata dal solito lavorio degli alleati sedicenti frugali, consentirà, bene che vada, di posizionare la proposta della Commissione in un ideale punto di mediazione fra Paesi indebitati e Paesi rigoristi. A tutto danno dell’Italia, al punto che un’altra economista, considerata tradizionalmente schierata con il partito degli ultrarigoristi, autrice fra le altre cose del volume L’austerità fa crescere (sic!), ha argomentato su “La Stampa” che il governo dovrebbe “votare no”, anche perché un rafforzamento del vincolo esterno avrebbe come risultato “un incremento delle tensioni antieuropee”. Scenario non troppo attraente, in una fase in cui simili tensioni si riversano in un continente dominato dalle destre: dalla Polonia, tornata in auge per la sua linea ultra-atlantica, all’Italia e, chissà, in futuro anche alla Francia.