Stando alla tesi principale del libro di Carlo Trigilia – La sfida delle diseguaglianze. Contro il declino delle sinistre, pubblicato dal Mulino alla fine dello scorso anno –, dopo i Trenta gloriosi, che videro il compromesso tra capitale e lavoro, e quindi il protagonismo delle socialdemocrazie in tutta Europa, solo in alcuni Paesi le sinistre sarebbero state in grado di rappresentare gli operai, i segmenti meno abbienti in genere, e, nello stesso tempo, anche i ceti medi interessati ai valori e ai beni post-materialistici. Si tratta di quei casi in cui le socialdemocrazie, nell’Europa del Nord e nella Germania del modello renano, hanno adottato politiche di ridistribuzione della ricchezza e di sostegno alla crescita grazie a un ambiente istituzionale che potrebbe essere definito di “democrazia negoziale”. Nel resto d’Europa, si osservano casi di alta crescita, drastica riduzione delle spese sociali e notevoli diseguaglianze, come nel Regno Unito; oppure le situazioni di quei Paesi definiti dall’autore ibridi – come Italia, Grecia, Spagna e Portogallo –, in cui si assiste a una bassa crescita non inclusiva, associata a ingenti spese sociali, che non riescono però a ridurre le diseguaglianze.
Dunque, nei paesi dell’Europa meridionale, le diseguaglianze aumenterebbero a causa di un assetto politico-istituzionale che non permetterebbe al capitalismo democratico di prosperare,così come avviene nell’Europa del Nord, caratterizzata da una democrazia inclusiva e negoziale, in cui sistema elettorale proporzionale e disposizione al confronto tra capitale e lavoro garantiscono investimenti statali volti a politiche industriali e di formazione di ampio respiro e, quindi, all’innovazione continua sia dal lato della produzione industriale sia da quello delle risposte richieste alla protezione sociale.
Il cuore del libro sta allora nella disamina del caso italiano, nella quale gli assunti della tesi principale vengono articolati per spiegare una situazione segnata da alte diseguaglianze, pure a fronte di notevoli spese statali per il welfare. Ebbene, il problema italiano avrebbe origine dalla mancanza di una vera e propria socialdemocrazia, a causa della presenza del Pci, definito partito anti-sistema, che avrebbe impedito la nascita di una democrazia negoziale e il formarsi di un sindacato disposto a contrattare con la controparte politiche industriali e di formazione di lungo periodo.
La Dc, dal suo canto, avrebbe approfittato della “condanna” a governare per assicurarsi rendite di posizione elettorali tramite politiche clientelari fino ad assecondare la vocazione predatoria del capitalismo nostrano. Negli anni Novanta, secondo Trigilia, il nostro Paese avrebbe così, da un lato, scontato le politiche clientelari e la scarsa efficienza della pubblica amministrazione – altro punto di forza, e debolezza allo stesso tempo, del sistema democristiano –, e, dall’altro, l’assenza di una vera e propria formazione partitica di stampo socialdemocratico. Di fronte alla globalizzazione, alla ristrutturazione capitalistica postmoderna e all’egemonia neoliberale, la sinistra italiana sarebbe stata incapace di opporre una visione di lungo periodo, grazie a un rapporto virtuoso con il capitale al fine di modificare anche la struttura produttiva del Paese – dalla piccola e media impresa a concentrazioni di maggiore grandezza – per poter competere sul mercato mondiale tramite innovazione e più alta produttività. Fra le debolezze italiane, si deve registrare secondo l’autore anche l’abbandono del sistema elettorale proporzionale per il maggioritario, che non favorirebbe l’ambiente democratico negoziale.
Tale ricostruzione del caso italiano appare molto imprecisa e tipica di un certo modo di vedere l’Italia come Paese arretrato, in balia di una sinistra non veramente riformista e quindi incapace di prendersi la responsabilità della modernizzazione. È prima di tutto sbagliato definire il Pci come partito anti-sistema, sia per il suo contributo costituente sia per la sua continua ricerca di una “via italiana al socialismo” nella libertà, sia per la sua vocazione decisamente socialdemocratica nelle esperienze amministrative delle cosiddette regioni rosse. Inoltre, andrebbe notato che il Pci stesso, per larga parte della sua storia, fece suo l’assunto dell’Italia come Paese arretrato, in cui la sinistra avrebbe dovuto farsi carico della modernizzazione grazie a una sorta di patto fra produttori. Come si sa, questa visione portò a un forte scontro all’interno del partito, che ebbe la sua soluzione nell’XI Congresso, con la vittoria della destra amendoliana contro la sinistra ingraiana, che leggeva l’Italia come Paese a capitalismo avanzato. Certamente, il Pci aveva al suo interno anche intellettuali, sindacalisti, dirigenti, e personalità di spicco a esso vicine, che pensavano al superamento del capitalismo, che riflettevano sulla liberazione del lavoro, sulle nuove alienazioni, sul consumismo e sulla crisi ecologica che si presentava in tutta la sua gravità già a partire dagli anni Settanta del secolo scorso (si pensi al Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma del 1972, alla nascita dei primi movimenti ambientalisti e a quelle Ong che posero il tema dell’insostenibilità del modello di sviluppo occidentale e della sua natura predatoria nei confronti dei popoli non occidentali e del pianeta stesso). Questa componente, che faceva capo alla sinistra interna al partito, era peraltro fortemente critica dell’esperienza sovietica, e fu in grado di dialogare con quei movimenti giovanili che, a partire degli anni Sessanta, misero in rilievo l’incipiente crisi del modello socialdemocratico, incapace di sviluppare le richieste di ulteriore democratizzazione delle istituzioni e delle fabbriche, che esso stesso aveva generato.
Andrebbe allora detto che quelle critiche alla socialdemocrazia e al suo modello di sviluppo furono profetiche, e ascoltate solo da chi rifletteva sul superamento del capitalismo. Messo da parte quel tipo di sensibilità, con la fine del Pci, l’Italia si trovava, e si trova oggi, senza più alcuna cultura critica diffusa; a maggior ragione, questo avviene anche nelle socialdemocrazie dell’Europa del Nord, che da decenni non esprimono più alcuna riflessione sul modello di sviluppo (se non per una certa sensibilità ambientalista, che si presenta però solo come tecnica green e non come vera e propria ecologia politica), e non sono nemmeno particolarmente attente alle grandi questioni democratiche. Se è certamente auspicabile, infatti, una democrazia negoziale – grazie al protagonismo di sindacati, forze di sinistra e attori imprenditoriali disponibili al confronto –, è altrettanto vero che la democrazia non si esaurisce nella negoziazione circa la ridistribuzione della ricchezza. Democrazia è anche potere decidere, da parte dei lavoratori, cosa produrre, come produrre e per quali bisogni. Inoltre, la formazione da negoziare tra lavoro e capitale – di cui tanto parla l’autore –, al fine di rendere più competitive le imprese, non ha fatto altro che trasformare la scuola in un luogo in cui si apprendono competenze a discapito di una vera e propria cultura tramite la quale i giovani possano orientarsi nella società, riflettere sul senso del loro posto nel mondo e avere, quindi, gli strumenti critici per pensare nuovi mondi, altri modi di produrre, di vivere e di rapportarsi con l’alterità da sé, vicina e lontana.
In conclusione, possiamo dire che il richiamo all’esperienza delle socialdemocrazie europee, da parte di Trigilia, appare lunare sia perché la socialdemocrazia si presenta in crisi nel suo complesso, dalla fine dei Trenta gloriosi (come abbiamo ricordato sopra) sia perché, proprio negli ultimi anni, i partiti dell’estrema destra e del centro moderato hanno ottenuto la maggioranza in Finlandia e in Svezia, mentre in Danimarca la socialdemocrazia ha dovuto optare per una grande coalizione con il centrodestra, dopo un calo vistoso dei consensi alle elezioni del 2022. Ci pare invece degno di apprezzamento il richiamo al contesto politico e istituzionale nella lotta alle diseguaglianze, al di là del tessuto produttivo dei singoli Paesi. A Trigilia sfugge però il fatto che una buona democrazia non si caratterizza solo per le sue forme di negoziazione fra capitale e lavoro, ma anche e soprattutto per il protagonismo dei lavoratori e dei ceti meno abbienti nei confronti del capitale stesso, che, anche quando si presenta attento alle questioni sociali, priva comunque di senso le esistenze sia di chi lavora sia di chi, soprattutto a causa dei processi di automazione della produzione, è espulso dalla possibilità di lavorare.
In fondo, il fallimento delle politiche per la creazione di posti di lavoro, in Italia come nel resto d’Europa, certifica che sarebbero necessari uno scatto di immaginazione nella riflessione sulla diminuzione dell’orario di lavoro e, allo stesso tempo, forme di partecipazione da parte dei lavoratori e delle lavoratrici. Le sinistre devono farsi portatrici di una nuova cultura critica e del conflitto – anche all’interno di democrazie negoziali –, capace di pensare un mondo in cui l’impresa non sia più il fulcro della sicurezza sociale e, in genere, della vita, a favore di una democrazia intesa come istituzione sociale di quei valori e di quei modi di vivere, pensare, lavorare e accogliere l’altro da sé, in grado di salvare il pianeta, fermare le guerre e fondare una nuova giustizia globale.