La bonaccia liberista, che il governo della sovranista Meloni impacciatamente sta cercando di ridurre a puro nazionalismo economico, è diventata un furioso vento di maestrale per la temeraria incursione del garante della privacy nei domini incontrastati delle grandi corporation digitali, con la sospensione di ChatGPT. Capeggiati da “Repubblica”, e sostenuti dal fior fiore di lucidi cervelli del progressismo tecnologico, si è levato il coro dei libertari a oltranza, travestiti da improbabili start-upper o da dotti scienziati dell’etica digitali, che reclama, come teorizzava ai suoi tempi Gianroberto Casaleggio, che si faccia in fin dei conti come fanno coloro che vincono in rete: ci si attenga unicamente alla tecnologia. Il sigillo reazionario sulle proteste in difesa dei proprietari di ChatGPT lo ha impresso poi ufficialmente il leader leghista Salvini, che ha ritenuto incomprensibile mettere i bastoni fra le ruote a un tale benefattore dell’umanità.
In realtà, come diceva Martin Luther King, non sono le accuse dei nemici a farci male quanto il silenzio degli amici. Sul tema della regolamentazione dell’intelligenza artificiale, che è stato posto dall’authority italiana, non si è percepito un fiato dalla sinistra né politica né sindacale – con la leader del Pd, così accreditata di cultura contemporanea, ancora affaccendata a trattare i nomi della segreteria del partito, e la Cgil, reduce da un congresso in cui il termine “digitale” non è apparso né come aggettivo né come sostantivo in tutto il dibattito –, che non ha ritenuto di dedicare al tema alcuna attenzione. Non parliamo poi del mondo delle professioni, investito direttamente dalla pervasività degli automatismi del pensiero ma del tutto assente, come medici, giuristi, docenti e soprattutto i giornalisti, anch’essi reduci da un congresso che ha tenuto tenacemente la testa sempre rivolta al passato.
Siamo invece dinanzi a un nodo fondamentale che potrebbe offrire spazi del tutto inediti all’iniziativa politica e sociale, se fosse assunto per quello che è: un pretesto per impossessarsi di un problema. Il pronunciamento del garante della privacy – che ha sospeso nel nostro Paese la funzionalità di ChatGPT in tutte le sue versioni, per quanto un fenomeno trasversale e globale possa essere sospeso da un’autorità locale – rende infatti ineludibile per tutti, a partire dalle istituzioni europee che sarebbero le più adeguate ad affrontare il problema, la questione della trasparenza e legittimità di un servizio ai privati, basato su un bene pubblico, di cui non ha concessione né liberatoria, che sono i dati di miliardi di persone, stratificati storicamente e ordinati per argomenti e pubblicazioni.
Stiamo parlando di un vero saccheggio, questo è il temine tecnico per un impossessamento di una risorsa pubblica a fini privati, che non ha precedenti per estensione e pervasività. Come spiega l’avvocato Guido Scorza, componente del collegio dell’authority della privacy “Il chatbot immagazzina – o, almeno, può immagazzinare – una conoscenza globale su centinaia di milioni di persone in giro per il mondo, sul loro modo di pensare, sulle domande che si pongono, sulle loro ansie, paure e preoccupazioni. Nessun terrorismo psicologico e nessun invito a smettere di sperimentare, ma non dimentichiamoci che ChatGPT-3 non è un nostro amico, ma un prodotto commerciale realizzato da imprenditori”. Siamo dunque in presenza di uno dei casi più macroscopici di privatizzazione di beni pubblici a fini strettamente speculativi. Che non si esauriscono con l’arricchimento dei proprietari, ma si evolvono in una forma di dominio sociale planetaria di cui abbiamo già chiara la forza e l’estensione.
Naturalmente, proprio per la dimensione e l’entità dei principi e dei poteri in campo, è ovvio che il decreto del garante italiano sulla riservatezza dei dati è assolutamente insufficiente, e forse persino velleitario. Ma, almeno da punto di vista politico, si tratta di porre all’ordine del giorno un problema che, al momento, non viene nemmeno sfiorato dalle istituzioni: si sta discutendo per la prima volta del fatto che il titolo di proprietà di un sistema cognitivo, che si basa sulle attività complessive della popolazione terrestre e ambisce a condizionarne comportamenti e linguaggi, è del tutto ininfluente rispetto alla sua gestione.
In sostanza, nel cambio di natura che il capitalismo ha maturato (passando, come aveva previsto Marx nei Grundrisse, dall’estrazione di valore dal lavoro materiale all’affermazione di dominio con il controllo del sapere), la categoria della proprietà perde la sua centralità rispetto alle forme di complicità sociale che il nuovo ciclo produttivo pretende. Siamo dunque a un bivio culturale e antropologico, che richiederebbero una visione e una teoria in grado di dominare la trasformazione.
ChatGPT, come Detroit per Gramsci, si presenta oggi come il prototipo di un nuovo assetto di produzione della ricchezza, basato su un livello di collaborazione non retribuita degli utenti, e comportando, come fu per Detroit, una modalità di gerarchia di poteri e di riorganizzazione delle funzioni. Arriva, con l’automazione delle attività discrezionali che comportano i dispositivi di intelligenza artificiale decentrati all’individuo, a uno stadio maturo quel processo che Marx aveva intuito quando scriveva che “lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza”. Uno stadio che venne focalizzato lucidamente già da “Quaderni rossi”, con una famosa ricerca di Romano Alquati sul nuovo lavoro operaio all’Olivetti.
Lungo questo crinale, siamo oggi alla più accelerata fase di smaterializzazione della produzione e alla riformattazione delle nostre relazioni sociali, che vengono ricomposte e ri-programmate attraverso la capacità dei sistemi di calcolo di aggregare ed elaborare la moltitudine dei dati che distribuiamo nella nostra vita, mediata dagli algoritmi. In questa nuova meccanica produttiva, in cui i dati sono il carburante per far marciare gli apparati cognitivi, come spiega Lev Manovich, nel suo Cultural Analytics (Cortina Editore), in cui ricostruisce le condizioni e le motivazioni materiali che autorizzano oggi l’esplosione di pratiche quali appunto ChatGPT, che funzionano in virtù di una potenza di calcolo che permette di integrare le informazioni dell’intera infosfera e rielaborarle, cambiano proprio la natura e la legittimazione del sistema capitalistico. Non è più la proprietà dei mezzi di produzione che preserva il potere del capitale, quanto l’abilità a indurre forme di complicità sociale, come la consegna dei dati dimostra, che, da un lato, permette queste procedure automatiche di deduzione e, dunque, previsione di bisogni e desideri da parte di ogni singolo utente, ma, dall’altro, lega il funzionamento del sistema alla disponibilità di questa complicità. Scrivono Antonio Negri e Michael Hardt, nel loro Comune (Rizzoli editore): “In altri momenti storici, il capitale ha saputo mantenere uniti la forza lavoro e il comando sul lavoro, per dirla in termini marxiani, è stato capace di costituire una composizione organica tra capitale variabile (la forza lavoro salariata) e il capitale costante. Oggi assistiamo a una profonda rottura della composizione organica del capitale, una decomposizione progressiva in cui il capitale variabile (in particolare la forza lavoro biopolitica) è separata dal capitale costante e dai dispositivi politici di comando e controllo. Il lavoro biopolitico tende a generare proprie forme di cooperazione e produce il valore sempre più autonomamente”.
Di questo parliamo quando reclamiamo un nuovo statuto negoziale nei confronti del capitale cognitivo, e specificatamente dei linguaggi e dei modelli epistemologici veicolati dalle forme di intelligenza artificiale. La base negoziale è proprio lo scambio fra servizio e dati, e l’oggetto della contesa sono gli assetti etici e valoriali in base ai quali il sistema cresce e si auto-addestra.
La decisione del garante della privacy, come le famose sentenze dei pretori del lavoro negli anni Sessanta e Settanta, aprono un varco, indicano un percorso e impongono una risposta sia al sistema politico e istituzionale, sia alle componenti sociali. La sinistra come ordinatore di queste componenti deve misurarsi su questi temi. La nuova leadership di Elly Schlein, per la sua coerenza anagrafica e culturale con queste nuove modalità di vita, non può esorcizzare il tema, nascondendosi dietro ai riders come emblemi di un’emergenza che sostituisce la questione di fondo. Lo stesso vale per la Cgil, quando si lamenta dell’imbarbarimento delle relazioni industriali e di lavoro senza cogliere che, proprio nel liberismo del laissez-faire, che accredita queste potenze sociali, si intravede l’origine di una società priva di regole e tutele.
Non meno coinvolte sono le figure professionali. Parlavamo dell’irrilevanza che il mondo dell’informazione mostra rispetto a questi temi. Sarebbe stato diverso se il garante, invece di muoversi autonomamente, fosse stato sollecitato dal sindacato dei giornalisti o dalle associazioni della sanità, che avrebbero guadagnato il diritto a essere interlocutori di queste istruttorie. Oggi dobbiamo riconoscere che si è accesa una luce. Come sempre, però, una sentenza senza sostegno sociale non vive. Troviamo forze e parole per dare forma a questo sostegno.