Le piazze piene nelle città occidentali sembrano voler sfidare ogni teoria del disincanto. In palio una nuova idea della democrazia rappresentativa, e soprattutto un nuovo blocco sociale che reclama un accesso diretto alle deliberazioni. Da Parigi a Tel Aviv, passando per la Gran Bretagna e gli Stati trumpiani degli Usa, e ora perfino nell’imperturbabile Germania, manifestazioni di massa sembrano annunciare una nuova stagione di mobilitazione sociale. In diversa misura, si certifica la crisi dei mediatori tradizionali – partiti e sindacati – e si assiste a uno scontro diretto fra vertici istituzionali e alleanze di interessi sociali. Sono fenomeni molto diversi fra loro, caratterizzati comunque da un unico filo rosso, che va tirato per capire dove potrebbe portarci: una forma inedita di partecipazione alle decisioni, a partire da una nuova federazione di interessi e bisogni che spesso travalicano i confini nazionali.
Le due realtà testimonial sono la mobilitazione nazionale francese contro il presidente Macron e il rigetto della società metropolitana israeliana nei confronti del bonapartismo di Netanyahu. Due proteste apparentemente segnate da una comune spinta antiautoritaria, ma che ci parlano, invece, in maniera completamente diversa. Contro la proposta di innalzare l’età pensionabile dei francesi (che comunque si trovano ai vertici del welfare europeo, dunque mondiale) si è riversata una folla composita, nella quale sono confluite realtà estremamente differenziate, in molti casi addirittura contrapposte, con la destra lepenista a soffiare sul fuoco della denuncia anti-elitaria, e una sinistra di Mélenchon in cerca di spazio e ruolo nella ripresa dell’iniziativa sindacale.
Al cuore di questa poderosa folla rimangono, comunque, i “gilet gialli”: quella forma di rivolta del ceto medio più colpito dalla globalizzazione e dalla competizione tecnologica che, da anni in Francia, sta cercando una rappresentanza più completa e organica dello strumentale appoggio della destra di marca neofascista. Questo impasto di figure marginali – che galleggiano nel variegato mondo del terziario o delle amministrazioni pubbliche, o ancora negli interstizi del precariato assistenziale – coltiva da tempo una rabbia contro le élite del successo garantito, che in Francia hanno percorsi predestinati fin dalla prima infanzia, con la scelta di scuole e relazioni famigliari che precostituiscono l’approdo in posizioni dominanti. Insieme al risentimento per un’esclusione genetica, anche la frustrazione per un’evoluzione socio-tecnologica che sostituisce i lavori che si sanno ancora fare con occupazioni che non si comprendono nemmeno, come oggi anche i modelli di intelligenza artificiale annunciano.
Quello d’oltralpe, insomma, è un movimento che riprende la tematica della opposizione alla globalizzazione “prima maniera”, quando a sfilare contro il G8 erano i giovani libertari ed egualitari, con gli agricoltori francesi che pretendevano protezionismo contro i Paesi emergenti. Un coacervo di proteste che vede prevalere un disegno plebiscitario e populista, tutto iscritto in una rivincita della destra estrema, dopo la sconfitta subita da Marine Le Pen alle presidenziali. A Parigi il tema che brucia è quello di un popolo moderno che non trova sbocco politico se non ingaggiando un “corpo a corpo” con un presidente che si trova, anch’esso, senza rappresentanza politica e mediazione sociale. Previdenza a parte, il tema vero è un modello di composizione delle volontà e degli interessi che corregga una democrazia rappresentativa azzoppata dallo svuotamento dei partiti.
A Tel Aviv, per certi versi, va in scena, in un’ipotetica macchina del tempo, l’evoluzione di quanto si vede in Francia. Nelle masse oceaniche che stanno riempiendo le strade delle città israeliane vediamo, per la prima volta forse in Occidente, in maniera plastica e identificabile, un’altra forma di popolo, un’alleanza di moderni produttori del sapere, di abilità e competenze, del tutto emancipate nella gestione del proprio destino, ma che reclamano un mondo coerente e funzionale alla vita globale e autonoma che vogliono condurre. Strappando la bandiera con la stella di David alla destra, e sfogando la propria rabbia contro un governo già vecchio e inadeguato a pochi mesi dalla sua nascita, sfila una società civile che non si era mai appalesata in maniera così riconoscibile: in prima fila i riservisti, che in Israele sono il vero cemento del rapporto fra governanti e governati in ogni stagione politica, con i ceti professionali metropolitani, le università, i giovani giramondo, le donne in carriera, quella indispensabile compagnia di tecnici e ricercatori che danno ruolo e peso allo Stato ebraico nel mondo. Un popolo dell’innovazione – potremmo dire – che chiede una modernizzazione delle categorie della politica, dove lo Stato con il maggior rapporto fra brevetti e popolazione nel mondo non sia ipotecato da un pugno di coloni, che tiene in ostaggio la sicurezza nazionale, dove il welfare non si bruci per finanziare migliaia di famiglie, che di mestiere fanno gli ortodossi, dove si riprenda a ragionare sulle comunità locali come soggetti negoziali dinanzi al governo. Una ripresa del filone della sinistra ebraica che oggi, nella nuova società reticolare, trova un concreto modello di riorganizzazione delle volontà e degli interessi.
La sensazione è che questa fase preluda alla maturazione di nuove forme istituzionali e politiche. L’irruzione di potenze quali il decentramento all’individuo delle intelligenze artificiali, con processi di automazione che spostano sempre più in là il confine fra lavoro materiale e attività cognitive, ci dice che una “nuova talpa” sta cominciando a scavare. Starebbe alle forze della sinistra ridarle una bussola, ritrovando basi materiali e sostegno sociale per riaprire il tema di una democrazia egualitaria, anche a costo di trovarsi accanto nuovi alleati.