“La democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre”. È storica questa frase pronunciata dal premier britannico Winston Churchill in un discorso alla Camera dei Comuni nel novembre 1947. Vogliamo ricordarla perché in questi giorni, in Francia come in Israele, sia pure per ragioni diverse, questa “forma di governo in cui il potere risiede nel popolo” resta l’unico modo pacifico o quasi per costringere quegli uomini e quelle donne che siedono nella stanza dei bottoni a cambiare idea. È quello che sta succedendo, da settimane e da mesi, nello Stato ebraico (vedi qui), dove il governo di estrema destra, presieduto dallo stagionato e corrotto Benjamin Netanyahu, è contestato da centinaia di migliaia di persone, che hanno riempito le piazze di Tel Aviv come di Gerusalemme, di Beersheva come di Haifa.
Per arginare la protesta l’esecutivo si sta avviando verso lo stop alla contestata riforma della giustizia, chiesto anche dal presidente, Isaac Herzog. Un provvedimento che avrebbe cancellato ogni autonomia della Corte suprema favorendo in particolare “Bibi”, come viene chiamato il leader del partito di destra Likud, il quale da tempo è sotto processo per numerosi reati di corruzione. La nuova legge vieterebbe di dichiarare il premier inadatto. La rivolta non è contraddistinta da un colore politico preciso – in piazza sono presenti settori moderati della politica israeliana, rappresentati dall’ex premier Yair Lapi, come ciò che resta della sinistra, ovvero i laburisti e il Meretz –, ma soprattutto da pezzi importanti della società civile preoccupati da una deriva fascistoide, razzista e omofoba della politica israeliana. Oltre che teocratica: in un Paese sempre in bilico tra la laicità e la degenerazione religiosa integralista. Anche l’ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, cacciato dal capo del governo per aver chiesto il fermo della riforma, è diventato uno dei protagonisti della rivolta, il cui obiettivo – il congelamento appunto della riforma della giustizia – sembra essere ormai a portata di mano.
Il clima, in queste ultime ore, si è ulteriormente surriscaldato: il Paese è bloccato dallo sciopero generale indetto dallo storico e potente sindacato laburista Histadrut, capeggiato da Arnon Bar-David, che rappresenta sia lavoratori dell’industria sia impiegati. I voli non decollano, come annunciato dal leader del sindacato dei dipendenti degli aeroporti israeliani, Pinchas Idan, che ha annunciato l’arresto di tutti i voli dall’aeroporto Ben Gurion. Anche all’interno delle forze armate c’è agitazione. I riservisti rifiutano di presentarsi all’addestramento, rendendo difficile il lavoro di unità di élite come lo Squadrone 69 dell’aviazione, impegnato sul fronte iraniano. Non va meglio con i combattenti delle forze speciali. Anche il console generale israeliano a New York, Asaf Zamir, si è dimesso dall’incarico per protesta.
Ora a correre dei seri rischi di tenuta è l’esecutivo. Il blocco della riforma, con il conseguente ridimensionamento dei settori più estremisti, sta spingendo il ministro della Giustizia, Yariv Levin, autore della nuova legge, a minacciare l’uscita dall’esecutivo, sollecitando il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, e quello della Sicurezza nazionale, Ben Gvir – inquietante leader estremista, la cui politica minaccia di rendere ancora più incandescente il conflitto con i palestinesi – a fare altrettanto. Il mancato sostegno di questi imbarazzanti personaggi, alcuni dei quali non esitano a definirsi “fascisti”, farebbe mancare i numeri all’esecutivo, con il conseguente ennesimo ritorno alle urne.
Questa straordinaria mobilitazione, che nella storia d’Israele non ha precedenti, coinvolge però poco gli arabo-israeliani, e per niente i palestinesi, la cui causa è quasi completamente assente dalle rivendicazioni della piazza. E se è vero che l’eventuale uscita di scena del governo Netanyahu fermerebbe l’ulteriore via libera all’espansione dei coloni, è altrettanto vero che i precedenti esecutivi nulla hanno fatto per riaprire un dialogo e fermare la repressione nei territori della West Bank. L’attuale esecutivo ha cancellato dalle proprie prospettive l’obiettivo dei “due popoli, due Stati” – anche se quelli precedenti, a loro volta, non si sono certo preoccupati di riprendere la strada che dovrebbe portare alla risoluzione dell’ultra-settantennale conflitto israelo-palestinese.
E intanto i morti non fanno che aumentare. Se nel 2022 sono rimasti uccisi 220 palestinesi e 30 israeliani, finora, nel 2023, oltre 60 arabi sono caduti sotto i colpi dell’esercito con la stella di Davide. Lo scorso febbraio, il governo aveva approvato la legalizzazione di nove avamposti in Cisgiordania, con conseguente costruzione di diecimila alloggi per i coloni così com’era stato già fatto nel 2012, con un altro governo Netanyahu. Questa situazione, almeno per il momento senza via d’uscita, non può non essere presa in considerazione quando si valuti il tasso di democrazia a Tel Aviv. Se viene fatta valere quando si tratta di risolvere problemi interni alla politica e alla società israeliane, essa è però sempre meno in cima alle preoccupazioni dello Stato ebraico nei confronti dei palestinesi, il quale a riguardo segue una linea politica para-coloniale e razzista, inconciliabile con i valori della democrazia occidentale.