Centocinquant’anni fa, il 18 marzo 1871, sull’onda della sconfitta militare della Francia bonapartista a Sedan, iniziava la breve avventura della Comune di Parigi. Nella collana della Fondazione per la critica sociale è da poco apparso il libro di Kristin Ross, Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi (e sull’argomento abbiamo già pubblicato su “terzogiornale” un articolo di Riccardo De Gennaro, autore a sua volta di un romanzo riguardante la Comune). Nonostante quella prima esperienza di governo socialista della storia sia terminata in una “triste tragedia”, come recita la quarta di copertina del libro di Ross – cioè con le fucilazioni di massa, le deportazioni, la repressione su larga scala –, non v’è dubbio che il segno lasciato dalla Comune sia stato profondo e vitale. Soltanto al giorno d’oggi, nel deserto in cui viviamo, c’è da aspettarsi poco dal ricordo e dalla discussione intorno a quella esperienza storica, che fu anche oggetto, d’altra parte, di prolungate mitizzazioni.
Tanto per cominciare la Comune non fu affatto marxista. Marx ed Engels ci misero sopra il cappello teorico, ma per trovare dei comunardi che si ispirino al loro pensiero si dovrebbe cercarli con il lanternino. La loro idea era che la Comune fosse un’espressione di quella che chiamarono, con una formula ambigua e foriera di notevoli guasti, “dittatura del proletariato”. Certo non si trattava del dominio del partito unico, che avremmo poi conosciuto nei paesi del blocco sovietico, e però Marx ed Engels finivano così con lo stabilire una stretta parentela tra il possibile potere socialista e quello del periodo giacobino della Rivoluzione francese. La Comune, nella realtà, fu affare di proudhoniani e blanquisti: due correnti tra loro molto diverse e perfino scarsamente compatibili. La prima (Proudhon era morto già da qualche anno ma continuava ad avere un numeroso seguito in Francia tra le classi lavoratrici, soprattutto tra gli artigiani) puntava a una rapida dissoluzione dello Stato attraverso forme federalistiche e mutualistiche di autogoverno dei produttori. La seconda, più legata all’eredità giacobina, vedeva l’insurrezione, e la successiva instaurazione di un potere centralizzato, come il compito di un’avanguardia organizzata e armata. Il passaggio dalla lettura marxiana della Comune all’interpretazione leniniana della rivoluzione avviene inequivocabilmente via Blanqui, facendo propria cioè in modo sempre più netto la prospettiva di un gruppo ristretto di rivoluzionari “di professione”. C’era inoltre, nella Comune, una componente di sinistra repubblicana radicale (quantunque il nostro Mazzini non ne fosse affatto un simpatizzante) che vedeva nell’esperimento nient’altro che il compimento della Rivoluzione degli anni 1789 e seguenti.
Ciò non toglie che i comunardi riuscissero a dare davvero un’impronta “sociale” al loro governo. Per esempio, la legge che aboliva il massacrante lavoro notturno dei fornai non fu motivata semplicemente con argomenti, diciamo così, fisiologici (salvaguardare la salute dei lavoratori e simili), ma con ragioni di partecipazione alla vita politica: non si sarebbe potuto prendere parte alle assemblee se si fosse stati costretti a lavorare di notte e a dormire di giorno. La forma della democrazia diretta, esprimentesi attraverso i comitati cittadini di quartiere (secondo gli arrondissements parigini), fu il grande contenuto democratico della Comune. Ma c’è da domandarsi: se il loro governo fosse durato più a lungo, i comunardi sarebbero riusciti a mantenerla e a svilupparla? O, di fronte a un persistente conflitto armato con le forze della reazione, avrebbe prevalso la componente centralizzante e autoritaria?
Un esame dell’esperienza storica successiva, in particolare quella dell’ottobre sovietico, non potrebbe che confermare il carattere retorico della domanda: una rivoluzione “accerchiata” si irrigidisce rapidamente in forme autoritarie, che diventano la premessa di irrigidimenti ulteriori. La democrazia diretta teorizzata da Rousseau può funzionare per periodi limitati o in contesti circoscritti – per esempio quando si tratti dell’autogestione di una fabbrica da parte delle maestranze –, ma su più larga scala non regge. Deve allora, per evitare scivolamenti autoritari, intrecciarsi con forme di democrazia rappresentativa. E il tutto dev’essere costituzionalmente bilanciato e regolato. La Comune, invece, soppresse l’istituto parlamentare instaurato un mese prima: con ciò essa cercava forse un’alternativa di verità alla finzione di democrazia diretta che si era avuta nel ventennio bonapartista con i plebisciti; al tempo stesso, tuttavia, dimostrava scarsa sensibilità per la complessità delle procedure democratiche.
Altro punto controverso: una democrazia diretta dispiegata presuppone una forte omogeneità, perfino di lingue, tra i gruppi sociali che prendono parte alla vita politica. Un mondo multiculturale, con la figura dell’immigrato che ha oggi in larga misura sostituito quella tradizionale del proletario, deve basarsi su una universalità dei diritti di cittadinanza più in linea con le forme di una democrazia rappresentativa, magari da rinnovare, che con quelle classiche della democrazia diretta. Dopotutto Rousseau aveva in mente una democrazia per quattro gatti – e la strumentalizzazione del suo pensiero, oggi forse arrivata alla fine, da parte del movimento 5 Stelle e del “Casaleggio-pensiero” con la sua visione della rete, rientra infatti nel populismo, non nella democrazia propriamente detta. Infine, sebbene dispiaccia non poco doverlo ammettere, tutto il pensiero socialista francese dell’Ottocento, fino all’affaire Dreyfus, era intriso di antisemitismo, considerando il giudeo come il rappresentante tipico della “feudalità finanziaria”. Non risulta che la Comune abbia fatto delle leggi in alcun modo discriminatorie – ma se il destino le avesse concesso più tempo?