Un intervento abilmente ruffiano, favorito da un contesto fragile ed evanescente. L’irruzione della premier di destra nel congresso della Cgil segna un cambio di scena del tutto inedito. Il sindacato viene derubricato a grande patronato dei poveri, ai dipendenti viene assicurata la protezione contro la concorrenza internazionale alle loro aziende, a pensionati e ceto medio basso si assicura un fisco clemente. In cambio, si pretende la neutralità sulle strategie politiche del governo e sulle forme di privilegio della proprietà e soprattutto dell’impresa, la cui esclusiva nella gestione economica non si discute.
Sarebbe facile e anche provocatorio parlare di una platea intesa dalla Meloni come la Camera delle corporazioni dei deboli, ma non sarebbe sbagliato. Il sindacato diventa un soggetto politicamente neutrale, che compie periodicamente la sua questua dinanzi al governo, che trova modo di sostenere gli ultimi, di garantire i penultimi e di premiare i secondi; mentre i primi diventano controparti che si devono arrendere al potere dell’esecutivo o diventare una quinta colonna di un globalismo penalizzante della nazione. In questo schema non si parla di diritti, tanto meno di conflitti, ma solo di redditi accessori, di servizi sociali compensativi. Il potere non è tema che riguardi il sindacato.
È sembrata sicura e disinvolta la presidente del Consiglio sulla tribuna rossa. I peluche all’inizio l’hanno solo intenerita per lo sguardo compassionevole dedicato alla sparuta pattuglia di irriducibili contestatori. Una volta sul podio, non ha avuto imbarazzi o incertezze: tutto in discesa. Si è permessa di usare il ricordo dell’omicidio dell’economista del lavoro Biagi per ricordare le ambiguità di qualche spezzone sindacale; ma subito ha compensato con il tributo reso alla Cgil bersaglio dei fascisti e dei “no vax”, che le è valso anche l’unico, per quanto incerto, applauso dei delegati apparsi più spiazzati che freddi.
Ogni buco che Landini ha lasciato nel suo percorso congressuale è diventato una voragine in cui spietatamente la Meloni si è precipitata, offrendo al sindacato il ruolo di consultato permanente ma non decisivo. Simmetrico alla relazione del segretario generale anche il totale silenzio della premier italiana sull’intero intrigo tecnologico: banda larga, rete nazionale, cloud della pubblica amministrazione, telemedicina, digitalizzazione dell’amministrazione pubblica – sono rimasti nel cassetto, come peraltro anche nell’esposizione di Landini. Rimosso, soprattutto, il buco nero del dominio digitale: come si colloca l’Italia nella battaglia europea per autonomia e consapevolezza critica nella gestione delle nuove intelligenze? Domanda non fatta dal sindacato, risposta nemmeno sfiorata dal governo. Fra parentesi la questione Ucraina, segnale che proprio non si voleva increspare minimamente l’acqua.
Ora tocca alla Cgil. O si accetta l’offerta e si chiede dove sedersi al tavolino delle consultazioni, o si inizia un nuovo congresso in cui la Cgil decide di non fare come la Cisl e di ritrovare un’identità di soggetto politico globale, che rappresenta una visione del mondo da parte del lavoro. Una scelta ostica, che lascia poco spazio, e soprattutto richiederebbe un cambio radicale di punti di vista. Ma forse anche di occhi, per non farsi trasformare in un innocuo patronato sociale.