Quello che prese il nome di “processo di riorganizzazione nazionale” fu una dittatura civile-militare che, negli anni Settanta, continuò il regime di terrorismo di Stato cominciato per perseguire o annientare l’Ejército revolucionario del pueblo (Erp) e la sinistra peronista dei Montoneros, da parte dell’organizzazione paramilitare illegale chiamata Triple A. Il risultato fu che decine di migliaia di persone scomparvero, furono uccise, violentate, torturate, rapite. Le organizzazioni per i diritti umani, i sindacati, il movimento studentesco, i movimenti sociali e molti partiti politici stimano che le vittime siano state trentamila. La Commissione nazionale sulla scomparsa delle persone (Conadep) fu creata dal presidente Raúl Alfonsín, il 15 dicembre 1983, con l’obiettivo di indagare sulle violazioni dei diritti umani, in particolare sulla scomparsa di persone decisa dalla dittatura. La Commissione raccolse migliaia di dichiarazioni e testimonianze, verificò l’esistenza di centinaia di luoghi clandestini di detenzione in tutto il Paese. Nel 1984, produsse un rapporto finale, “Nunca más”, usato come prova nei processi ai militari, in cui nel tempo sono stati condannati diversi dei uomini che presero il potere nel 1976. La commissione era presieduta dallo scrittore Ernesto Sábato.
In seguito alla dittatura e al fenomeno dei desaparecidos, nacquero alcune organizzazioni ormai storiche. Quella delle abuelas, delle nonne dei bambini sottratti ai loro genitori dati in adozione a famiglie vicine alla dittatura, ha potuto identificare e ottenere la restituzione alle loro famiglie legittime di più di centotrenta bambini. Estela Barnes de Carlotto, una delle abuelas, ha ricordato che mancano ancora trecento nipoti da ritrovare. Estela ha ritrovato suo nipote il 5 agosto 2014. Recentemente la vicepresidente, Cristina Fernández de Kirchner, parlando del ruolo delle abuelas, ha dichiarato: “Voi avete avuto il coraggio che tanti altri argentini non hanno avuto di scendere in strada e affrontare quello che nessuno affrontava, perché la conseguenza sarebbe stata sicuramente la sparizione o il carcere”.
Pablo Llonto, da trentanove anni, conduce la sua lunga battaglia come avvocato delle vittime del terrorismo di Stato. In Argentina, marzo è il mese della memoria per la verità e la giustizia, che culmina il 24, anniversario del golpe del 1976, quando in tutte le città del Paese si scende in piazza per ricordare. Mi ha ricevuto nella sua casa di Buenos Aires, e quello che segue è stato il suo racconto.
Avevo quindici anni quando ci fu il colpo di Stato. Ho fatto parte di una generazione che si è formata ed è cresciuta durante la dittatura. Abbiamo ricevuto i valori dei nostri genitori, della famiglia, della Chiesa, dei gruppi a cui appartenevamo. Un discorso molto falso circa quello che stava accadendo nel Paese. Siamo cresciuti, liberandoci dalla benda che ci chiudeva gli occhi, vedendo la realtà. Credo che la rabbia per tanta falsità ci ha messo di fronte alla responsabilità che ci spettava come generazione. Questo debito ha fatto sì che cambiassi la mia direzione. Avevo pensato di essere un avvocato e un giornalista. Non pensavo di diventare un avvocato dei diritti umani, ma all’età di diciotto-diciannove anni, capendo quello che avevo di fronte, ho preso la decisione di impegnarmi per la difesa dei diritti umani.
Mi pare ancora un tema molto attuale in Argentina…
Non è un tema di massa, ma ci sono determinati momenti ed episodi grazie ai quali ritorna di attualità. Per esempio a marzo, o quando ci sono situazioni di ingiustizia. Quando accade di recuperare un nipote, o quando c’è qualche avvenimento dell’arte o della politica che abbia qualche relazione con la memoria. Solo per fare un esempio, il film Argentina 1985 ha provocato molta emozione l’anno scorso.
Ha anche avuto molto successo al Festival del cinema di Venezia.
Sì, ed era candidato all’Oscar. Questo film ha svegliato soprattutto i giovani, ha suscitato il loro interesse su cosa è accaduto. Il popolo argentino è un popolo che, nella sua maggioranza, conserva la memoria e crede nella necessità del giudizio e del castigo dei colpevoli. Questo è stato il messaggio delle Madri di Piazza de Mayo negli ultimi anni della dittatura e nei primi anni della democrazia. Il messaggio diceva “giudizio e castigo ai colpevoli”. Di conseguenza, questo è un obiettivo che è radicato nella memoria popolare. Ma esiste pure una percentuale della popolazione che non vuole sapere nulla del passato.
So che c’è ancora qualcuno che va a cancellare i nomi delle vittime.
Quello è un fenomeno minoritario. Non si sa quale sia la percentuale della gente che non vuole sapere nulla del passato. Non sappiamo se sia un 30%, ma si può dire che negli ultimi venticinque o trent’anni sono una minoranza. È tanto minoranza che, quando succedono certi fatti, i politici che sono più vicini a questa parte si sentono obbligati a seguire una condotta che non ha nulla a che vedere con questo pensiero negazionista. Ti faccio un esempio. Mauricio Macri è un rappresentante del centrodestra argentino. Il centrodestra, in generale, non ne vuole sapere della memoria. Per loro rappresenta il passato. Però quando accadono determinati eventi nazionali o internazionali, questa parte politica si colloca dal lato della memoria. Quando Macri era presidente – e venivano in visita il presidente degli Stati Uniti, il primo ministro francese e il capo del governo tedesco – lo stesso Macri li accompagnava al Parco della memoria nel Rio de la Plata in una cerimonia in cui i capi di Stato lanciavano fiori in ricordo dei desaparecidos. Questo è solo uno dei mille esempi che ci sono in Argentina. Quest’anno si celebrano i quarant’anni del ritorno alla democrazia, e ci saranno innumerevoli atti, ricordi, marce. Credo sia molto difficile che una qualsiasi forza politica rivendichi il golpe, come invece sta succedendo in qualche Paese, come il Brasile, l’Italia stessa, o altri Paesi dove appaiono settori che non solo non coltivano la memoria, ma sostengono forze di impronta fascista, golpista, o di estrema destra. In Argentina esiste una coscienza popolare che per il momento, e speriamo che sia così per sempre, è molto consolidata sull’obiettivo del giudizio e castigo dei responsabili, e del “mai più colpo di Stato, mai più i militari al potere”.
C’è un movimento a favore della conservazione della memoria?
L’Argentina è il Paese al mondo che ha più organismi che tutelano i diritti umani. Oltre alle organizzazioni storiche, quelle delle Madri, delle Nonne, dei Figli, dei Famigliari dei desaparecidos, la Lega per i diritti dell’uomo, che presto avrà cento anni di vita, l’Assemblea per i diritti dell’uomo, e il Centro di studi legali e sociali (Cels); in questi quarant’anni di democrazia si sono formati nelle città e nei Paesi diversi organizzazioni dei diritti umani che ci hanno sorpreso. Per fare un esempio, negli ultimi tre quattro anni è nato un organismo dei diritti umani nel gioco del calcio. I club di calcio hanno cominciato ad avere subcommissioni e direzioni di diritti umani, che lavorano per quanto riguarda i tifosi di calcio desaparecidos. Questo fino a quattro cinque anni fa non esisteva. Trent’anni fa il sindacato argentino non aveva segreterie dedicate ai diritti umani. Oggi le segreterie dedicate ai diritti umani sono a decine, e si occupano di recuperare la memoria dei metalmeccanici desaparecidos, dei giornalisti desaparecidos, degli operai edili desaparecidos, dei minatori desaparecidos. Abbiamo organizzazioni di diritti umani territoriali, sindacali, studentesche, nei club sportivi e nella politica. Esiste, in altre parole, una rete di movimenti e di organizzazioni di diritti umani che fanno sì che, per esempio, la manifestazione che facciamo ogni 24 marzo sia molto grande e partecipata, in maggioranza da giovani che non hanno vissuto quell’epoca. Giovani che hanno poco più di vent’anni. Questo ci dà forza, perché sappiamo che questa memoria, almeno per un certo tempo, continua. Io credo sia questo che dà la garanzia che in Argentina si continui a fare i processi, che continuino le esquinas de la memoria, le baldosas de la memoria (il movimento dei diritti umani pone targhe agli incroci, o piastrelle a terra, nei punti in cui hanno abitato o sono sparite vittime della dittatura, ndr), i nomi dati alle aule nelle scuole, alle strade. Escono una quantità di opere letterarie che ricordano i desaparecidos, nelle librerie aumentano i libri che trattano dei diritti umani e del terrorismo di Stato. Escono film, documentari. Si lavora molto, in ambito artistico, sul tema della memoria tesa a salvare le figure di coloro che sono scomparsi. C’è moltissimo movimento riguardante quello che ha assunto il nome di terrorismo di Stato. Il film Argentina 1985 ha avuto successo, e ora è appena uscito un altro film che si intitola El juicio che tratta dello stesso tema. Questo spiega cosa succede oggi in Argentina. La somma di tutte queste cose, che accadono alla base della società, che talvolta non si vedono perché non sono presenti quotidianamente nei giornali o nelle televisioni, ogni tanto però appare. Dal basso, c’è un movimento che opera ogni giorno facendo qualcosa in una università, in una scuola, in una fabbrica, in un sindacato, in un campo di calcio. Esistono piccoli organismi dei diritti umani in quasi tutto il Paese. Ci sono città in cui non c’è nulla. Mi è capitato di andare in qualche paese della provincia di Buenos Aires per parlare del tema. E poi scoprire che si era in seguito formata una commissione per i diritti umani o per la memoria. È una buona cosa, una fiamma viva che in prospettiva non si spegne.
Si calcola che le vittime del terrorismo di Stato siano state trentamila. Di queste, quanti sono i casi risolti?
Approssimativamente più del 60% è ancora senza un processo, o attende un lungo iter giudiziario. Quando è iniziato questo movimento, ovvero quando si riaprirono le cause, ci fu un giudice – il cui nome è Carlos Rozanski – che verso il 2004 disse che se continuiamo in questa maniera, e non si prende qualche misura per accelerare i processi, essi potranno avere fine in cento anni. E già ne sono passati venti, mentre mancano ancora da essere giudicati moltissimi casi.
E il fattore tempo?
È il grande nemico che abbiamo. L’altro nemico è la lentezza della giustizia. La maggioranza dei giudici non capisce il problema o non gli assegna l’importanza che dovrebbe avere. Oggi è la grande battaglia che stiamo facendo, ottenere che i processi vadano più spediti. I processi si stanno facendo, ma lentamente. Oggi abbiamo avuto una udienza e si è sentito un testimone. La prossima settimana si sentono altri due testimoni, e via di seguito, in modo che in un mese si ascoltano otto testimoni. E noi nei processi dobbiamo sentire duecento, o anche cinquecento testimoni. Così se ne vanno tre, quattro, cinque anni per ogni processo. Questi sono giudizi piccoli, anche se ne abbiamo avuti di grandi come quello della Escuela de mecánica de la armada (Esma), durato cinque anni, e che ha trattato quasi ottocento casi. Sono giudizi con quattro, cinque imputati, e con dieci, venti vittime. Così la prospettiva è di moltissimi anni per portare a termine i processi. Cosa sarebbe necessario per accelerarli? Basterebbe che le udienze fossero fissate ogni giorno. L’esempio che questo si può fare è il processo alla Giunta del 1985, quando ci fu una decisione politica giudiziaria della magistratura, che permise di raccogliere le deposizioni di 833 testimoni in quattro mesi. Ma visto che i processi in corso non sono in cima all’agenda giudiziaria, tutto va a ritmo lento.
Abbiamo parlato della violenza dello Stato riguardo al passato, ma esiste anche una violenza statale che si manifesta al giorno d’oggi.
Sì, però non ha nulla a che vedere con quella precedente. Ogni tanto arriva la notizia che in qualche commissariato del Paese si tortura della gente. Ma sono casi che rientrano nella eccezione perché non c’è alla base, come nel passato, una politica repressiva, ovvero un piano sistematico. Per esempio, ora che c’è un settore della classe media che chiede un giro di vite contro la delinquenza, emerge, ogni tanto, un’ondata di pensiero che chiede la pena di morte, e che si faccia come sta facendo Bukele in El Salvador (vedi qui). Questo sta emergendo, ora, in un settore della società e nei media soprattutto di centrodestra.
Conservare la memoria è non solo un omaggio alle vittime della violenza di Stato, ma anche un modo di rafforzare le istituzioni democratiche. Alla stessa maniera, anche criticare e condannare la violenza odierna, che pure non rientra in un piano sistematico, è un modo di rafforzare la democrazia.
Sì, ed è per questo che questi organismi qualche volta si dedicano non solo alla memoria del passato. Per esempio, il Cels ha un ufficio dedicato al terrorismo di Stato e ha un altro ufficio che si occupa di violenza istituzionale della polizia, della gendarmeria, della prefettura e del carcere. È, in altre parole, un organismo che si occupa di differenti violazioni dei diritti umani, compresa la violenza di genere. Però, quando il Cels è nato, aveva solo l’obiettivo della memoria della dittatura. A noi tutti preoccupa questo fenomeno di violenza, ma non vogliamo, o per lo meno io non voglio, sostenere che questo tipo di violenza sia come quella che ci fu durante la dittatura. Bisogna arrestarla, giudicarla, fare in modo che non torni a ripetersi, ma non è possibile parificarla a quanto è successo nel passato, perché in tal modo si rischierebbe che quel passato perda peso. Bisogna fare sì che la gente capisca che la pena di morte non deve esserci più – e questo si ottiene con l’educazione, con le campagne, spiegando che la pena di morte è ingiusta in tutti i Paesi in cui è applicata, che è una barbarie, che non possiamo avere questo criterio per la pena.
Fatti la domanda che non ti ho posto.
(Ride, ndr). Potrei chiedermi perché in Argentina non abbiamo ancora risolto questo problema. Che cosa ci è successo come società perché non ne siamo ancora venuti a capo. Io sto per compiere 63 anni, e mi piacerebbe poter dire che tutti i responsabili sono stati giudicati, che tutte le madri hanno avuto una risposta, che tutti i desaparecidos rimanenti sono stati rintracciati, che tutti i nipoti sono stati restituiti. Ma quello che uno vede è che tutto ciò si allontana. Ogni mese ho uno o due funerali di madri. Ci sono madri che hanno novanta, novantotto, cento anni. Queste madri ti supplicano, piangendo, perché si faccia qualcosa per trovare le ossa dei figli per potere portar loro dei fiori. Molte sono morte senza che abbiamo potuto dare loro una risposta. Com’è stato possibile che – come società – non abbiamo potuto impedire tutti questi anni di impunità che abbiamo avuto? Il grande problema è stato il periodo di impunità compreso tra il 1989 e il 2003. Quattordici anni di impunità mortale per il movimento dei diritti umani, perché allora gran parte della società voltò le spalle al movimento dei diritti umani.
Ciò avvenne perché ci si era dimenticati del passato o per una mancanza di sostegno politico?
Per entrambe le cose, perché c’era una società addormentata che aveva dato credito al discorso fatto da alcuni politici tendente alla pacificazione e alla riconciliazione. In tal modo gran parte della società disse sì, la giustizia disse sì, la Corte suprema e molti tribunali si espressero a favore dell’indulto e della scelta di non giudicare. Allora dovemmo andare in Italia, in Germania e in Spagna per aprire cause lì per vedere se si poteva ottenere qualcosa all’estero. In quell’epoca, ci fu una causa riguardante un gruppo grande di desaparecidos italiani, perché non si poteva farlo qui. Ora però è possibile farlo. La causa che abbiamo ora in Italia ha a che vedere con la richiesta di estradizione del fratello di un attore comico, un tale di cognome Cherruti, che ha fatto parte del servizio di intelligence ed è stato un repressore. Ora vive in Italia e gestisce un ristorante.
E a cosa si deve il ritorno dell’interesse per le vittime del terrorismo di Stato dopo questa parentesi?
Ti dico una cosa che per me, giornalista sportivo oltre che avvocato, ha un significato particolare. Quando arrivava il 24 di marzo, con il Giorno della memoria, si chiedeva ai club di calcio argentini di osservare un minuto di silenzio nei campi di gioco. C’erano club che accettavano e altri che invece si rifiutavano. C’erano anche arbitri che dicevano che tutto ciò non aveva nulla a che fare col gioco. Ti parlo del 2000, del 2001, e non di quaranta, cinquant’anni fa. Con il passare degli anni, sempre più club di calcio hanno gruppi di giovani che hanno creato una direzione della memoria, ed è una cosa che sorprende, perché non l’abbiamo ideata o promossa noi. Per esempio, nella loro attività nominano soci a vita i tifosi desaparecidos, pongono placche per ricordare sportivi che hanno giocato in quel terreno, invitano a qualche partita qualche madre, affinché assista al calcio di inizio della partita e riceva l’applauso del pubblico. Sono tutte cose che dimostrano che il problema è ben radicato. Tuttavia, tra gli insegnanti, ogni tanto sbuca un professore che sostiene che quella dei desaparecidos è una menzogna. Emergono posizioni negazioniste o perfino che plaudono al fatto che quella gente sia stata fatta sparire, perché erano terroristi. In un periodo lungo quattordici anni, molto triste per il movimento dei diritti umani, fu eletto governatore della provincia di Tucumán il generale Bussi, negli anni Novanta. In seguito, quando fu giudicato, Bussi fu condannato. Nello stesso periodo, un altro poliziotto repressore della provincia di Buenos Aires, di nome Patti, fu eletto sindaco di una grande città, ed era favorito alla elezione a governatore della provincia più grande dell’Argentina, che è quella di Buenos Aires. Aldo Rico, un militare genocida che aveva partecipato alla sollevazione contro il presidente Alfonsín nella settimana santa del 1987, una specie di Tejero (il militare golpista spagnolo, ndr), fu eletto sindaco di San Miguel. In altre parole, quello che in quell’epoca è accaduto era non solo dare le spalle, ma consacrare col voto popolare alcuni genocidi. In questo momento ci sono dei negazionisti, e c’è una crescita elettorale della destra; ma è molto difficile che succeda quello che è accaduto negli anni Novanta, quando si è presentato un candidato genocida risultato poi eletto in una regione. Sono i casi di repressori arrivati al livello più alto. Ci sono tanti che sono stati eletti deputati, un po’ com’è avvenuto in Brasile. Quello che stiamo cercando di fare è che il movimento di base non si fermi – grazie a libri, film, atti, documenti, processi, spettacoli, sport. La cosa importante è che continui a essere vivo il ricordo in ogni ambito. Questo è il fine che si propone il movimento dei diritti umani. Il vento che viene dall’Europa e da altri Paesi soffia intenso. Siamo un continente che ha sofferto molti colpi di Stato. Negli anni Settanta quasi tutta l’America latina era guidata, più o meno, dalla stessa ideologia golpista e militare. Uruguay, Argentina, Cile, Brasile, Paraguay, Bolivia, Perù, Ecuador, e pure il l’America centrale.
Ora però l’America latina ha svoltato a sinistra.
Sì, non sono stati ampi trionfi, ma, almeno per il nostro tema della memoria, permettono di opporre uno scudo ai venti di destra che soffiano.