Sono ormai vent’anni e passa che si è aperto il fronte sud dell’immigrazione. Dopo l’Albania, le rotte balcaniche via terra, la Turchia e la Grecia, la Libia è diventata il maggior punto di partenza dei migranti arrivati dal Corno d’Africa, attraverso la frontiera di Kufra, ai confini tra l’Egitto e il Sudan. E, dall’altra parte, attraverso il Niger. Un ventennio durante il quale ci siamo ostinati a gestire l’emergenza migratoria soltanto in chiave di ordine pubblico. Se si dovesse fare una statistica dei ministri di Roma, in missione a Tripoli, troveremmo al primo posto i ministri dell’Interno, solo dopo i presidenti del Consiglio. Ci sono stati ministri degli Esteri che mai hanno toccato il suolo tripolitano (se non andiamo errati, Gianfranco Fini, quando era alla Farnesina, non andò mai in visita ufficiale in Libia). Ciò non vuol dire che poi i rapporti tra i due Paesi non furono stretti, tanto che vivemmo una stagione feconda di collaborazione fino alla firma del Trattato di amicizia tra i due popoli – unico caso di un Paese europeo con la Libia – sottoscritto dai parlamenti dei due Paesi.
Ora, sostenere che la Russia di Putin – attraverso la società Wagner, che si occupa di mercenari ed è un esercito privato – favorisca la partenza di migranti per mettere in difficoltà l’Italia è una grande bufala. Che già ci toccò sentire agli inizi di questo millennio, quando il fiume carsico dei flussi migratori, dopo la chiusura delle frontiere di Ceuta e Melilla (ingressi in Europa attraverso le due città spagnole in Marocco), trovò il suo sbocco in Libia. Allora l’Occidente – l’Italia in particolare – accusò il colonnello Gheddafi di usare l’arma del ricatto dei migranti per ottenere, in cambio, la cessazione dell’embargo che aveva messo in crisi la Libia. Embargo che cessò, nel 2003, quando il regime libico annunciò la fine della produzione di armi chimiche, e fece entrare gli ispettori internazionali a controllare i diversi siti di stoccaggio per la loro distruzione.
Certo, i report degli analisti della nostra intelligence potranno avere anche prospettato questa ipotesi, sulla base della presenza in Cirenaica del gruppo Wagner; ma allo stesso modo ci sono in Libia altre presenze straniere, dalla Turchia ai Paesi del Golfo. Dunque, ancora una volta, i ministri dell’Interno e della Difesa italiani puntano il dito contro la Libia, sempre più avvolta in una crisi di prospettiva democratica, per colpa dei “burattinai” stranieri che muovono le loro pedine sullo scacchiere libico.
In realtà, oggi il rischio di “invasione” c’è – ma non dalla Libia, quanto piuttosto dalla vicina Tunisia, in piena crisi economica e democratica. Le stime degli 007 ipotizzano un flusso di settecento-ottocentomila tunisini disposti a partire. Se poi siano in grado di farlo, questo è un altro discorso. Ma la questione esiste. E non va dimenticato che le partenze ci sono state, in passato, anche dall’Egitto.
I naufragi purtroppo ci sono sempre stati. Oggi si avverte il disagio per le mancate risposte di soccorso che, oggettivamente, lasciano intendere che Roma rallenti la macchina degli stessi soccorsi. Negli anni, i governi più lungimiranti hanno cercato di costruire una barriera di opportunità nei Paesi rivieraschi del Mediterraneo, e in quei Paesi dove più forte è l’aspirazione verso l’Occidente: i cosiddetti accordi bilaterali tra governi, in grado di “responsabilizzare” gli Stati locali e governare i flussi migratori. Aiuti economici, di mezzi di polizia o natanti, programmi di sviluppo (vedi l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) per creare lavoro. Oggi questa rete protettiva è saltata dopo i mutamenti politici interni a quei Paesi, attraversati dalle “primavere” arabe, ma anche dalla presenza di organizzazioni del terrorismo islamista.
L’Africa è percorsa da veloci cambiamenti e immani contraddizioni. La Fao ipotizza che, tra venticinque anni, la popolazione africana supererà i due miliardi e mezzo. Si è già parlato delle migrazioni per le modifiche climatiche che stanno accelerando i processi di desertificazione e modificando la morfologia dei territori. Ma il vero tsunami, che rischia di travolgere l’Africa, è la crescita esponenziale della popolazione. Sono le nuove generazioni e i meno garantiti (anziani e donne) che scappano verso l’Occidente. Sono i seicento milioni di africani che vivono senza elettricità che hanno bisogno di fuggire da questo Medioevo.
Ma se i giovani abbandonano le loro terre, chi garantirà il futuro dei loro Paesi? Già oggi assistiamo alla fuga dalle campagne, a un analfabetismo di nuovo dilagante, e alla crescita di metropoli sempre di più divenute le uniche opportunità di sopravvivenza. E molti dei Paesi che si affrancarono dal colonialismo sono oggi dei regimi militari. È la corruzione che li governa, insieme con la fragilità delle istituzioni e addirittura dei confini (nella regione sahel-sahariana).
Mentre avanza la penetrazione economica della Cina, e si affacciano nuovi pretendenti (Russia e Turchia), l’Europa è incapace di assumere l’Africa nella sua dimensione geopolitica, e continua ad affrontarla come una questione di mera minaccia alla stabilità dei rispettivi Paesi. “Andremo a prenderli a casa, i trafficanti”. Impotente e miope il governo Meloni. Pensa di brandire la clava della risposta militare e di ordine pubblico. Senza sapere che il popolo dei migranti è inarrestabile.