“È come se si vivesse con una eterna febbre alta” – racconta una signora della media borghesia in fila al supermercato, alla quale chiedo cosa significhi vivere con l’inflazione. Un febbrone da cavallo, se lo scorso anno la crescita dei prezzi ha raggiunto il 94,8%, secondo i dati ufficiali. Mentre sono in molti a credere che la linea del 100% sia già stata raggiunta e sorpassata, facendo del 2022 l’anno con il più consistente aumento del costo della vita dal 1991. “I soldi in Argentina non servono a niente” – continua la mia interlocutrice, mentre si accinge a pagare alla cassa. “E tutto ciò che in altri Paesi è del tutto possibile, come comprare un frigorifero, qui è assolutamente un lusso”. Pur senza volerlo, pare dare indirettamente ragione all’anarco-liberista Javier Milei, versione portegna della vulgata trumpista, che ha dichiarato che il peso argentino, moneta della casta, non serve nemmeno per comprare l’abbonamento della metropolitana.
Due seggi al Congresso nelle elezioni legislative dello scorso novembre, col suo La Libertad Avanza ha raggiunto il 17% dei voti a Buenos Aires, collocandosi come la terza forza tra il peronismo e il macrismo. “El Clarín” – il maggiore quotidiano del Paese, fondato nel 1945 da un gruppo di antiperonisti – qualche giorno fa scriveva che “non è la prima volta, ma non cessa di catturare l’attenzione. Un nuovo sondaggio commissionato da Junctos por el Cambio (lo schieramento di destra, ndr) e da dirigenti di altre forze. In questo caso la rilevazione è stata fatta in provincia di Buenos Aires, e nelle primarie aperte simultanee obbligatorie (Paso), escono vincenti Cristina Kirchner e Javier Milei”.
Che sia affidabile o meno, il sondaggio pubblicato – e c’è qualcuno che ne dubita –, i motivi che stanno all’origine dell’inflazione sono molteplici, e tra questi ci sono la penuria di moneta forte necessaria per far fronte alle importazioni e i limiti per accedervi. Per sostenere la sua valuta, l’Argentina ha introdotto una serie di cambi specifici, che vanno dal dollaro blu, al dollaro turista, al dollaro Qatar, via via continuando fino all’ultima versione partorita dal ministro delle Finanze, Sergio Massa, in occasione della festa tipica della “vendemmia di Mendoza”: il dollaro Malbec! Di fatto, l’Argentina consente un mercato parallelo, in cui ufficialmente il dollaro viene cambiato a duecento pesos, mentre il cosiddetto dollaro blu viene cambiato esattamente al doppio. Questo ha fatto sì che in tutto il Paese si siano aperte casas de cambio dove, oltre a soddisfare chi viaggia salvandolo da prezzi che altrimenti risulterebbero altissimi, gli argentini si recano prendendo il numero come al banco del supermercato, e attendendo pazientemente il proprio turno per ottenere prestiti. O, più frequentemente, per acquistare dollari o euro che si tengono in casa, diffidando totalmente del sistema bancario. Ciò detto, sembrerebbe che il dollaro sia l’ultima cosa in cui gli argentini hanno riposto la loro fiducia.
La conseguenza è stata la moltiplicazione della presenza nelle zone centrali della capitale di cambiavalute improvvisati, che cercano di guadagnare qualche soldo da una situazione sempre più difficile, che già minaccia di far scomparire una classe media sempre più impoverita. “Giorni fa dovevo comprare le scarpe da ginnastica per mio figlio che costavano ventiseimila pesos. Ho potuto farlo con la carta di credito pagando in tre rate, perché dai due lavori che faccio guadagno in totale trecentomila pesos al mese, e mio marito anche. Visto che la somma era troppo alta, ho dovuto indebitarmi con la mia carta di credito, e finirò di pagare le scarpe di mio figlio a giugno. Ovviamente questo lo può fare chi, come me, dispone di una carta di credito che mi permette di indebitarmi, perché sanno quanto guadagno” – racconta una mamma. E mostra un paio di occhiali da vista che dovrà pagare in dodici rate. “Li ho comprati lo scorso anno, e ancora non ho finito di pagarli”. Sorride, quasi volesse giustificarsi, mentre parla; ma entrambi pensiamo a quale forma di brutale indebitamento tutto ciò corrisponda.
Come già negli anni della grande crisi, sempre più spesso si sente di pensionati costretti a ritornare a lavorare perché la pensione non basta. E non solo tra i ceti meno abbienti, ma anche tra i professionisti con alle spalle brillanti carriere, costretti a improvvisarsi tassisti per arrivare a fine mese. Ovviamente – precisa un taxi driver, che quel mestiere l’ha fatto tutta la vita e ha dovuto riprendere il volante – nuotando totalmente nel nero. Se gli si chiede se pensa che qualcosa possa cambiare, risponde che non cambierà nulla. Anche se sarebbe perfino peggio con la destra. E se ci sono molti che tirano la carretta, non sembra soffrirne il settore finanziario, come quello immobiliare spinto dalle banche, e chi ha terra da coltivare, anche se due anni di siccità potrebbero presto farsi sentire.
Fautore delle totali libertà in campo economico, ultraconservatore quando sono in ballo diritti di donne e omosessuali, Milei ha le sue ricette sull’inflazione, pretendendo di eliminare il peso e dollarizzare l’economia, come è già avvenuto in altri Paesi latinoamericani. Una cosa già provata, del resto, con Domingo Cavallo quando venne introdotto il rapporto di parità tra il dollaro americano e il peso, tra il 1991 e 2001. Se tale piano aveva ridotto l’inflazione da oltre il 1300%, nel 1990, a meno del 20% nel 1992, fino a quasi lo zero nel resto degli anni Novanta, ha provocato però l’insolvenza del debito pubblico argentino e la rovina del Paese.
Dopo l’exploit di novembre, ottenuto proponendosi come una sorta di liberatore dei suoi connazionali dalla condizione servile imposta loro dai politici faccendieri, il cinquantunenne Milei sembra in oggettivo calo, e per il momento la sua minaccia di prendere i politici “a calci in culo” sembra rimandata a tempi migliori. Delle varie versioni populiste che l’Argentina distilla, Milei impersona quella “rockera”, con il suo codazzo di giovani osannanti.
Dopo la cacciata voluta da Cristina Kirchner del ministro dell’economia Martín Guzmán, reo di aver trattato con il Fondo monetario internazionale la restituzione del debito del Paese, il suo successore, Sergio Massa, che quelle trattative le ha continuate e concluse, ottenendo l’appoggio parlamentare anche da settori di destra, ha promesso per il 2023 un’inflazione del 60%. Ma, nell’ambito del Frente de Todos, ha pesato il voto contrario agli accordi con il Fmi espresso dall’ala dura e radicale guidata da Máximo Kirchner, il figlio di Cristina.
In seguito a ciò, sono finalmente emerse le differenze interne e la crescente distanza tra il presidente e la sua vice, che solo recentemente si sono visti assieme, dopo otto mesi di gelo polare. L’occasione è stato il discorso che Alberto Fernández ha pronunciato al Congresso, pochi giorni fa, durante il quale ha attaccato la Corte di giustizia difendendo Cristina, ma ha lasciato la porta aperta alla sua rielezione. Una eventualità che, senza tentennamento alcuno, tutto il kirchnerismo non vuole incasellare nemmeno nel periodo ipotetico della irrealtà. Condannata in primo grado a sei anni, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza che saranno rese note questa settimana, Cristina ha dichiarato di non voler essere candidata a nulla e recentemente ha detto di essere stata “proscritta”. Ha incentrato la sua politica sul “rifiutare la proscrizione”. Una balla colossale, vista la sostanziale indipendenza della magistratura argentina dal potere politico, e dato che nessuno potrebbe impedirle di candidarsi, con una condanna in primo grado, fino a sentenza definitiva. C’è da dire però, a onor del vero, che le critiche nei confronti della vicenda processuale mosse dagli ambienti vicini a Cristina partono da considerazioni su come sia stato montato il processo, quasi come se Kirchner avesse ucciso qualcuno. Nel frattempo, è partita da parte dei suoi sostenitori la campagna affinché si ricandidi. Escluso Alberto, che comunque si era detto disposto a farsi da parte di fronte una candidatura forte, il Frente de Todos potrebbe tentare la carta di Cristina, se solo accettasse. O candidare Sergio Massa, punto di mediazione tra due fazioni che tengono comunque a portata di mano l’ascia di guerra. Essendo lui, poi, l’unico che è in grado di parlare con tutti, al peronismo come alla destra. E se in passato Massa ha accusato Cristina di essere corrotta, no pasa nada.
Quella fatta da Massa, sull’abbassamento dell’inflazione, è solo una delle tante promesse che ci saranno in questi mesi di lunga e ininterrotta campagna elettorale, che andrà snodandosi mediante l’elezione di un governatore il 16 aprile; di altri tre il 7 maggio; ancora di altri quattro il 14 dello stesso mese; e di un ultimo l’11 giugno. A metà agosto, si svolgeranno le Paso, cioè le primarie, che mobilitano venticinque milioni di elettori, in pratica una sorta di sondaggio finanziato dallo Stato, che anticipa, senza molta precisione, i risultati delle presidenziali.
Il governo in carica è bocciato da tre argentini su quattro, e ha pochissimo spazio di manovra. Con questi chiari di luna, se non sono già iniziate, cominceranno a breve le elargizioni e i benefici concessi agli amici – e le promesse in vista di una campagna presidenziale dalla quale il Frente de Todos rischia di uscire con le ossa rotte a ottobre, quando si svolgerà il primo turno. Quanto alle previsioni ottimistiche di Sergio Massa – che aveva accettato l’incarico di ministro convinto di risolvere la crisi e di spianarsi, in tal modo, la strada alla presidenza, tra il debole Alberto Fernández e Cristina – vengono già smentite dalla Banca centrale, che prevede saranno più vicine al boom inflativo del 2022. In un anno elettorale, la preoccupazione del governo sarà in primo luogo quella di mantenere il potere di acquisto dei lavoratori, mentre la classe media va desapareciendo. E fa perfino sorridere sentire il ministro del lavoro, Kelly Olmos, dire che sarà cura dell’esecutivo fare in modo che gli aumenti delle buste paga non superino il 60%, “per convergere verso il livello previsto di inflazione più qualche punto di recupero”.
Nel frattempo, non aspettano i diciotto milioni di argentini che vivono sotto la soglia di povertà, mentre quattro milioni non mangiano abbastanza. Una situazione che viene da molto lontano, e che ogni governo che si è succeduto ha peggiorato, incaricandosi di demolire quello che era stato fatto da chi lo ha preceduto, anche a costo di non perseguire l’interesse pubblico. Le organizzazioni umanitarie della sinistra e del peronismo organizzano le ollas comunes, le pentole comunitarie per alleviare in qualche misura il problema della fame. Sta di fatto che tutta Buenos Aires pullula di uomini, donne e famiglie intere con tanto di bambini, che vivono per strada: uno spettacolo che contraddice l’immagine di città piena di teatri che la farebbero assomigliare a una qualche capitale europea. E contro questi poveri cristi, l’attuale sindaco, Horacio Rodríguez Larreta, del partito dell’ex presidente Mauricio Macri, ha messo in campo un corpo di polizia speciale per reprimerli. Il fenomeno dei senza dimora è anche aggravato dalla mancanza di una politica di case popolari ad affitto calmierato, da parte dei governi che si sono succeduti. “Esiste un mercato libero degli affitti – mi dice un barista di Palermo –, il mio in quattro anni è passato da sedicimila a centomila pesos”.
Mancano pochi mesi al primo appuntamento delle presidenziali, e nel peronismo al potere nessuno scalpita per candidarsi, considerando assai probabile la sconfitta. Rimarrebbe Fernández, Alberto, ma Fernández, Cristina (con lo stesso cognome, da non sposata, del presidente), che è quella che comanda, non ci pensa nemmeno. Sul fronte opposto, Mauricio Macri, battuto sonoramente dal voto, pare non ne abbia voglia. E solo lui potrebbe mettere tutti in riga, a destra, se si candidasse. Intanto il pollaio neoliberale ha cominciato ad agitarsi. Horacio Rodríguez Larreta ha rotto gli indugi e ufficializzato la sua candidatura a presidente per le elezioni del 22 ottobre. Vuole presentarsi come soluzione di centro, aperta al dialogo. Si propone di superare la frattura in cui il Paese vive da anni, drammaticamente diviso. Può vantare una certa capacità amministrativa, anche se talvolta discutibile, come le citate pattuglie messe in campo contro i senza casa. Ma ha già dovuto fare qualche passo di tango verso la destra di Milei e di Patricia Bullrich, attuale presidente di Propuesta Republicana (Pro), e una delle dirigenti della coalizione Juntos por el Cambio. Con la speranza che non gli rubino voti in vista delle Paso. La candidatura di Rodríguez Larreta rientrava nelle previsioni, era scontata. Rimane l’incertezza di cosa, alla fine, possa uscire da Juntos por el Cambio, dove la maggioranza è di Propuesta Republicana di Bullrich. Un’ultima considerazione, la maggioranza dei quarantasette milioni di argentini vive nella provincia di Buenos Aires: chi la vince, conquista il Paese.