Fine anni Cinquanta e poi Sessanta: l’automobile era un simbolo di libertà. Per i giovani che, insieme ad altri coetanei, si potevano spingere verso luoghi mai visti prima, lontani dal transito dei treni; per i capifamiglia che potevano portare mogli e figli al mare o in montagna, in qualsiasi periodo dell’anno. Insomma, una vera rivoluzione delle tradizionali vacanze legate, fino a quel momento, alle ferie estive da trascorrere presso località situate lungo i percorsi dei treni o degli autobus.
L’automobile era alla portata economica di (quasi) tutti. La Fiat vendeva a rate la famosa “500” agli studenti universitari; la benzina costava poco, e con poche centinaia di lire potevi raggiungere spiagge fino ad allora inaccessibili. Nelle grandi città, e ancor più nei piccoli paesi, ci si fermava a contemplare macchine favolose di passaggio: la mitica Giulietta spider, le Lancia, l’Mg decappottabile; più raramente transitava qualche “americana”, come la Buick o la Cadillac, auto che richiamavano alla memoria noti film americani. Subito dopo, è iniziata la motorizzazione di massa e poi, oggi, le tradizionali vetture sono state in gran parte soppiantate da enormi Suv, che se si fermano per la strada, nemmeno si prova più a farle partire a spinta. Accade a volte di vedere uno di questi Suv parcheggiato a fianco di una vecchia “500”, e la domanda che viene spontanea è come si faceva a stare in quattro persone su quest’ultima.
In Italia ci sono circa ottocento auto ogni mille persone. E l’auto, insieme al riscaldamento domestico, costituisce una delle cause principali dell’inquinamento da CO2, il famoso gas serra il cui aumento, nella parte alta dell’atmosfera, crea l’instabilità del clima.
Oltre alla CO2, i motori a scoppio producono altri effetti dannosi, quando non mortali: secondo l’Agenzia ambientale europea, nel 2019 sono state ben 307.000 le morti premature dovute all’esposizione al particolato PM2.5; 40.400 all’esposizione cronica di NO2 (ossidi di azoto) e 16.800 all’ozono. I dati relativi a PM2.5 e NO2 sono direttamente collegati ai gas di scarico dei motori che bruciano benzina e diesel (si veda L. Martinelli, Il governo fossile integralista contro l’automobile elettrica, “il manifesto” del 23/2/23).
Ma questo non è l’unico problema dell’auto a combustibile fossile. Se un marziano, dotato di una elevata tecnologia, osservasse il rendimento delle nostre macchine, ne dedurrebbe che siamo una civiltà da poco uscita dalle caverne. Perché per cento unità di energia che, sotto forma di benzina (fossile o di sintesi da idrogeno verde, o biocarburanti), mettiamo nel serbatoio, l’energia utile alle ruote è inferiore al 20%. Per questa ragione, l’auto a combustione interna è stata giustamente definita “una stufa che si muove”, dato che la gran parte dell’energia consumata se ne va in calore (si veda G. Onufrio, F. Spadini, Auto fossili, il “rinviare a campare” non servirà al clima, “il manifesto” del 4/3/23).
A tutto questo, c’è da aggiungere che se negli anni passati, come detto sopra, l’auto era un simbolo di libertà, ora è esattamente l’opposto: un simbolo di oppressione. Perché le nostre città sono progettate ormai a misura di auto: parcheggi, autostrade urbane, officine di riparazione, capannoni di demolizione, ecc. I nuovi quartieri di quasi tutte le nostre città si caratterizzano per la difficoltà di percorrerli a piedi. Occorre la macchina per fare la spesa a uno dei tanti centri commerciali, per portare i figli piccoli a scuola, per recarsi al lavoro, o ancora per andare dal dentista.
L’auto è diventata una macchina inefficiente, dissipativa di risorse (i fossili), produttrice di enormi quantità di gas nocivi alla salute e di gas serra e, infine, poco o niente utile per spostamenti in città, considerati gli estenuanti tempi di percorrenza. Le nostre città hanno i marciapiedi ingombrati da file di macchine ferme senza soluzione di continuità (sono in molti a dire che non prendono l’auto per non perdere il parcheggio lungo le strade, dove rimangono ferme per giorni o settimane).
L’Europa ha tentato di porre un freno allo sviluppo di questo tipo di auto mettendo fuori gioco, entro la data del 2035 (decisione del parlamento europeo del 23 febbraio 2023), i motori endotermici, quelli che, detto altrimenti, usano i combustibili fossili, per sostituirli con quelli elettrici che hanno un maggiore rendimento e non producono gas di scarto come la CO2.
Primo problema: gli investimenti in infrastrutture, ovvero la realizzazione dei punti di ricarica, sono molto indietro rispetto alla produzione di auto elettriche. A oggi quasi il 50% di tutti i punti di ricarica per auto elettriche sono concentrati in soli due Paesi dell’Unione europea – Paesi Bassi (90.000 caricatori) e Germania (60.000) –, che però rappresentano meno del 10% dell’intera superficie dell’Unione, e che per raggiungere la riduzione di CO2 del 55%, proposta per le autovetture come obiettivo intermedio al 2030, sarebbero necessari 6,8 milioni di punti di ricarica pubblici in tutta l’Unione. Se poi aggiungiamo che il tempo necessario per una ricarica è, mediamente, di tre ore a fronte dei cinque minuti di sosta alla pompa di benzina, il problema del caricamento delle batterie si complica ulteriormente.
Secondo problema: produzione e (futuro) smantellamento delle batterie. Se anche è vero che i costi di produzione delle batterie “dovrebbero ridursi di oltre il 40% dal 2020 al 2024 e di un ulteriore 20% entro il 2030” (L. Martinelli, nell’art. citato), resta la questione della produzione delle batterie, che richiede il consumo di terre rare, come il litio, il cobalto, ecc., presenti in quantità notevole solo in alcune parti del mondo (per questo già soggette all’inevitabile sfruttamento di multinazionali).
Terzo problema: afferma giustamente Butera che “un’auto elettrica (come del resto quella a idrogeno) non è necessariamente a emissioni zero; per esserlo deve essere ricaricata con energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili, sennò le emissioni sono semplicemente delocalizzate, dalla città al luogo in cui c’è la centrale elettrica che fornisce la carica; dunque c’è da immaginare che si dia per scontato un colossale incremento della potenza fotovoltaica ed eolica installata, specificamente destinato alla mobilità (…). Il piano (europeo) però cita semplicemente una crescita della produzione di energia rinnovabile, non una crescita imponente, come sarebbe se l’attuale parco auto circolante diventasse tutto elettrico” (F. Butera, Case e trasporti, così le città cambiano il clima, “il manifesto” del 7/1/21). Dunque, a ben vedere, l’auto elettrica non è la soluzione definitiva al problema della produzione di CO2, ma solo un rimedio temporaneo per far fronte all’aumento di CO2.
Ciononostante, rispetto alla decisione del parlamento europeo di sospendere la produzione dei motori a combustibili fossili entro il 2030, il governo italiano si è opposto e, spalleggiato da quello tedesco, ha costretto a rinviare la decisione. In Italia il rinvio è stato salutato come una grande vittoria, poiché la decisione di cessare la produzione di vetture a combustibile fossile era dettata, a detta del governo (leggi: Salvini), da “integralismo ideologico” e dal voler fare un regalo alla Cina – Paese più avanti nella produzione di veicoli a trazione elettrica. La giustificazione pseudo-ambientalista utilizzata è quella di includere nelle politiche europee le benzine sintetiche da idrogeno verde che, in teoria, potranno rendere a emissioni zero anche il motore a scoppio. Così come i “biocarburanti sostenibili”, tanto spinti anche da Eni: sarebbe la “neutralità tecnologica” (si veda ancora G. Onufrio, F. Spadini, art. citato).
In realtà, questi ultimi provvedimenti sono ancora in fase sperimentale, e comunque il rinvio è dettato dall’industrie automobilistiche, in ritardo rispetto alla produzione di vetture elettriche. In un futuro non precisato, l’automobile dovrebbe avere come combustibile l’idrogeno blu, prodotto da energie rinnovabili. L’idrogeno blu, a differenza di quello verde che viene prodotto mediante elettrolisi, ovvero mediante energia elettrica, è prodotto da energie rinnovabili – e qui siamo punto e da capo: le energie rinnovabili, ovvero sole, vento, acqua.
Ma quale che sia la fonte di energia, l’uso privato dell’auto non è più sostenibile: occupa una notevole quantità di spazio urbano, quasi sempre impermeabile (dunque difficile da usare per la raccolta d’acqua), rende le nostre città invivibili, impedisce o, almeno, rende difficoltosa la circolazione pedonale di anziani, bambini e persone disabili. Dunque la soluzione radicale è quella di limitarne al minimo l’uso privato, attraverso progettazione di quartieri senza auto, in cui sia possibile raggiungere i luoghi di spesa e di consumo a piedi. Per il resto, incrementare il servizio pubblico di auto e il trasporto su ferro. I provvedimenti necessari dovrebbero consistere nel dimezzamento del parco auto, nello sviluppo della mobilità pedonale e ciclabile, nello spostamento del trasporto dalla gomma al ferro (si veda F. Butera, Rinnovabili e impatto ambientale, “il manifesto” dell’1/5/22). Solo a questo punto le tradizionali (e molte di meno) auto a combustibile fossile potrebbero essere alimentate da idrogeno blu e carburanti sintetici verdi.
Nella sostanza, il problema vero è quello della progettazione dei quartieri e delle periferie delle nostre città, i cui necessari spostamenti delle persone (che non hanno o non vogliono prendere l’auto) è demandato ai mezzi pubblici collettivi tradizionalmente poco efficaci per spostamenti urbani. Nel centro storico, infatti, nessuno o quasi usa più l’auto privata. Ma la progettazione di nuovi quartieri nelle grandi città segue criteri opposti: assenza di negozi al minuto, concentrazione di grandi magazzini, alimentari e non, dislocati a distanza, per raggiungere i quali serve necessariamente l’auto privata. Roma rappresenta un caso paradigmatico: i nuovi quartieri sono lontanissimi dal centro e, per raggiungerli, i pochi mezzi pubblici impiegano spesso più di un’ora di percorrenza con spese enormi per l’amministrazione comunale. Strade e parcheggi rappresentano i nuovi paesaggi urbani desolati, dove non trovi quasi mai una persona che ti possa dare qualche indicazione. Anche le scuole elementari e gli asili nido sono distanti dalle abitazioni, e il ricorso all’auto privata per accompagnare i figli è d’obbligo.
Molti anni fa, racconta l’urbanista Vezio De Lucia, ex assessore all’urbanistica nella prima amministrazione Bassolino a Napoli, la decisione di pedonalizzare Piazza del Plebiscito, non lo fece dormire la notte precedente all’annuncio per il timore di una grande contestazione. L’indomani, ad annuncio avvenuto, esso fu accolto dalla popolazione con grande entusiasmo, e così la piazza-parcheggio fu conquistata alla pedonalizzazione. I nostri amministratori della cosa pubblica non dovrebbero mai dimenticare che la loro funzione è anche quella di educatori.
Nella foto: Napoli, Piazza del Plebiscito prima della sua pedonalizzazione