La città dei due mari aspetta diffidente. Questa idea che tutto è nero o bianco non è poi una grande soluzione. Ma dove sta scritto, per come si sono messe le cose, che il “mostro”, il drago che sputa fiamme, polveri e fumi tossici debba essere abbattuto? E per quale legge divina deve invece continuare a vivere, ad avvelenare territori ed esseri umani e animali? Il “mantra” delle classi dirigenti è che un Paese non può rinunciare a un’attività ritenuta “strategica”, cioè la produzione di acciaio. In un mondo globalizzato, in cui le merci viaggiano da un continente all’altro senza barriere, a differenza degli esseri umani, noi dobbiamo avere un impianto di produzione di acciaio a ciclo integrato. Il più grande d’Europa.
Ma perché non possiamo andare incontro ai bisogni della gente e del territorio? Taranto – perché dell’ex Ilva oggi Acciaierie d’Italia si tratta, con l’Arsenale militare, il polo di raffinazione del petrolio e l’acciaieria più grande d’Europa – rischia di essere una eterna “Bhopal” di Europa. Ecco, non necessariamente tutto deve essere nero o bianco, vita o morte, inquinamento o non inquinamento. Insomma, a Taranto, si può puntare su una parola d’ordine chiara, senza equivoci: decarbonizzazione. Si può e si deve lavorare a una soluzione che salvi produzione e occupati, e nello stesso tempo protegga l’ambiente e la salute dei cittadini.
Del resto sarebbe l’ennesimo schiaffone se governo, enti locali, gli stessi industriali, si affidassero di nuovo alla magistratura per uscire dallo stallo. Era il 26 luglio del 2012 quando la magistratura tarantina sequestrò gli impianti dell’Ilva e mise in carcere il gruppo dirigente dell’acciaieria, compresi i proprietari, per disastro ambientale e altri reati. Oggi si sussurra di una nuova inchiesta che vede coinvolti i “controllori” dell’ambiente. I sensori dell’Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale) hanno segnalato un aumento costante delle emissioni di benzene. Secondo l’Arpa l’aumento, complessivamente, è ancora sotto i limiti consentiti dalla legge.
Dieci anni dopo la prima inchiesta, il governo (con il consenso di sindacati e impresa) con decreti legge e provvedimenti vari, ha lavorato per neutralizzare nuove offensive giudiziarie, arrivando all’attuale “scudo penale”, che protegge da nuove incursioni giudiziarie lo stabilimento che può continuare a produrre, a garantire un salario ai dipendenti, che sono complessivamente sedicimila, comprendendo le ditte esterne e l’indotto. Tenendo conto che 3.500 lavoratori sono in cassa integrazione, in realtà lavoranooggi non più di seimila tra operai e impiegati.Nei fatti, l’acciaieria continua a inquinare.
Anche gli “accorgimenti” per ridurre la contaminazione ambientale di polveri e veleni, come la copertura dei cosiddetti “parchi minerali”, dove vengono parcheggiate le materie prime che servono per la produzione di acciaio, sembrano essere inefficaci, se è vero che sulle pareti esterne delle stesse coperture si sono depositate le polveri rossastre, cioè i minerali. Tamburi, il quartiere che lambisce la grande acciaieria, continua a essere una Pompei moderna, dove si respirano le polveri e i veleni dell’ex Ilva. A Taranto si muore ancora e ci si ammala di leucemia. Secondo molti, per colpa della ex Ilva.
Dunque, decarbonizzazione non è solo una parola d’ordine, comincia a essere il titolo di un libro che si sta già scrivendo. Neppure mago Merlino riuscirebbe a trasformare il drago ex Ilva in un impianto ecocompatibile, con un tocco della sua bacchetta magica. Ci vogliono anni, almeno dieci, risorse, almeno cinque miliardi, e una gestione complessa della riconversione della mano d’opera. E alla fine di questo percorso, i grandi altiforni, che bruciano carbone e minerali, potranno essere spenti e sostituiti da “forni elettrici”.
Va riconosciuto che questo nuovo orizzonte produttivo fu individuato dalla Regione Puglia, prima, e poi dagli enti locali. Un po’ alla volta ha attratto anche dirigenti del gruppo siderurgico e inquilini di Palazzo Chigi. E oggi siamo all’ipotesi di un nuovo “accordo di programma”.
Il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, crede a un percorso “per una siderurgia a Taranto autenticamente sostenibile”. Insomma, dice il primo cittadino, “noi siamo per una fabbrica più piccola, più sicura e più moderna”.
I vecchi padroni dell’acciaieria, i Riva, hanno dovuto versare allo Stato un risarcimento di un miliardo e cento milioni di euro che sono destinati alla bonifica e alla decontaminazione degli impianti. L’acciaieria, il 15 aprile del 2021, passa ufficialmente a una società mista: il 62% del pacchetto azionario e del colosso mondiale indiano ArcelorMittal, il 38% finisce a Invitalia, la società pubblica che, nel giugno del 2024, deterrà il 51% del pacchetto azionario.
Ora anche il presidente del consiglio d’amministrazione della società Acciaierie d’Italia, Franco Bernabé, si è impegnato a percorrere la strada della decarbonizzazione. Il governo Draghi, ha investito un miliardo di euro nel decreto “Aiuti bis” per finanziare “Dri-Italy”, che sta lavorando al progetto del semilavorato da trattare nei forni elettrici, il “preridotto”, che si ottiene utilizzando moderne tecnologie per arrivare alla riduzione del ferro, utilizzando gas naturale o idrogeno.
Ma il tema vero è che l’attuale socio privato delle Acciaierie d’Italia, l’indiana ArcelorMittal – è l’atto d’accusa del sindaco della città – “ha mostrato l’incapacità di aderire a scelte strategiche per il Paese, e noncuranza degli aspetti connessi alla manutenzione e sicurezza degli ambienti”.
E, dunque, in attesa del passaggio del 2024, quando la componente pubblica avrà la maggioranza del pacchetto azionario, deve partire subito la “transizione ambientale”. In questi giorni, è scaduta l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). Il governo deve avere a cuore gli interventi adeguati a tutelare la salute dei lavoratori e dei cittadini di Taranto.
Agli inizi di febbraio, Franco Bernabé ha incontrato gli enti territoriali per illustrare il progetto di riconversione ambientale dell’acciaieria. La cosiddetta decarbonizzazione avrà bisogno, per essere realizzata, di almeno dieci anni e cinque miliardi di euro di investimenti. Secondo prime stime, la nuova fabbrica con forni elettrici potrà entrare a pieno regime con il 40% della forza-lavoro in meno rispetto a quella attuale. Insomma, circa novemila lavoratori, tra diretti e indotto.
Nel 2022, lo stabilimento ha prodotto tre milioni di tonnellate di acciaio, nel 2023 sono previsti quattro milioni di tonnellate, cinque nel 2024.Ma c’è bisogno di un investimento massiccio di risorse (servono trenta miliardi di euro), intelligenze e lavoro, per avviare una indispensabile stagione di bonifiche.
Sì, il tema della transizione sociale è all’ordine del giorno. Timidamente, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Urso, si è detto disponibile a lavorare per il nuovo accordo di programma. La riconversione della ex Ilva è un tema divisivo. Che spacca in due la stessa città di Taranto. Non solo gli ambientalisti, ma anche una parte della città comincia a pensare che l’unica soluzione possibile sia quella della chiusura dell’acciaieria. La sua decarbonizzazione, invece, potrebbe essere davvero la soluzione praticabile. Bisogna crederci e, soprattutto, investirci risorse.