Sarà anche stato sincero Roberto Fico quando ha detto a “Repubblica” che “non esiste il tema concorrenza” fra Pd e Movimento 5 Stelle. L’ex presidente della Camera, del resto, è stato sempre fra i più convinti sostenitori del riposizionamento in una sorta di nuovo centrosinistra della creatura politica nata dall’incontro fra il populismo ambientalista di Beppe Grillo e l’idea di militanza civica digitale (ma teleguidata da sondaggi e algoritmi) di Gianroberto Casaleggio. Di certo c’è che, alla luce dell’elezione di Elly Schlein alla segreteria, gli interrogativi, per il leader stellato Giuseppe Conte e i suoi, si sono moltiplicati.
La linea ufficiale oscilla fra curiosità e scetticismo, fra profferte di collaborazione “sui temi programmatici” e toni di sfida al limite dell’irrisione. Il leader 5 Stelle, per ora, vanta rapporti “cordiali” con la neosegretaria: si è congratulato personalmente con lei per il successo nelle primarie, ma si è lasciato sfuggire, in una dichiarazione alle telecamere, che Schlein“avrà molto da fare perché conosciamo bene le correnti del Pd…”.
Il Piano B non c’era
Il dietro le quinte dei 5 Stelle racconta che sono stati colti completamente alla sprovvista dalla rimonta dell’ex europarlamentare. “Non avevamo un piano B”, dicono nel giro stretto dell’ex presidente del Consiglio. Bonaccini era segnato dall’immagine di vecchio renziano, dai rapporti un po’ troppo amichevoli con i suoi colleghi presidenti regionali leghisti, e rappresentava la maggiore continuità nella linea politica moderata e fedele alle gerarchie europee. Con lui alla guida, ai democratici sarebbe mancato lo slancio innovativo che Elly Schlein porta: per adesso a livello di immagine, che però in politica conta eccome, nel medio periodo si vedrà. Anche perché, contrariamente a quello che il chiacchiericcio mediatico ama raccontare, l’identità programmatica dei dem è consolidata, per non dire calcificata, sulla base delle numerose esperienze di governo, a livello locale e nazionale degli ultimi anni, da Monti fino a Draghi. Con Bonaccini, comunque, sarebbero mancate bandiere minimamente credibili da spendere per contrastare la concorrenza “da sinistra” che su alcuni temi i 5 Stelle rappresentano: a cominciare da quelli del lavoro, il salario minimo, il sostegno alle fasce più fragili della società.
L’ombra dei sondaggi
Gli scettici fra i 5 Stelle hanno gioco facile a ricordare che, se il Pd vuole davvero smarcarsi dal recente passato, alla ricerca di una rinnovata vocazione di sinistra, potrebbe cominciare a “non presentare gli stessi emendamenti di Forza Italia quando si discute di salario minimo”. Ma nemmeno gli scettici possono negare, per adesso, la forza attrattiva di un cambio della guardia al vertice fra Letta e Schlein. Giovane, donna, femminista, legata al movimento Lgbtqi+, tutto sommato una outsider, essendo rientrata da poco nel Pd per correre alle primarie, la nuova leader ha tutto quello che serve per rilanciare il partito nei sondaggi. E tutto questo un po’ di preoccupazione nella sede di Campo Marzio la suscita, anche se ufficialmente i contiani la negano.
Finora, dalla quasi scomparsa preconizzata da alcuni sondaggi forse un po’ tendenziosi che li davano addirittura sotto il 10%, i 5 Stelle alle politiche avevano superato in scioltezza il 15%, ottenuto robusti gruppi parlamentari, per ora apprezzabilmente coesi (una novità per loro) e, dopo le elezioni, hanno continuato l’inseguimento nelle rilevazioni sulle intenzioni di voto, fino a pareggiare sostanzialmente i conti col Pd a inizio febbraio. Ora, negli ambienti vicini ai vertici dei 5 Stelle, in molti danno per scontato che la tendenza si invertirà, e che una quota di quei consensi potenziali tornerà a guardare al Pd. D’altronde, secondo le rilevazioni demoscopiche più accreditate, nelle primarie che hanno incoronato Elly Schlein c’è anche lo zampino di una quota di elettori “di opinione” che avevano scelto proprio il simbolo delle 5 Stelle nelle urne del 25 settembre.
Una mano da Meloni & C.
La novità delle ultime settimane sembra essere figlia del risultato delle elezioni regionali e di una visione realistica sugli equilibri politici nazionali: una riflessione che comincia timidamente ad affacciarsi nei gruppi dirigenti nazionali delle due forze politiche. Nel Lazio e in Lombardia, le vittorie del destra-centro hanno certificato per l’ennesima volta la debolezza tanto di alleanze raffazzonate sotto scadenza elettorale, quanto di una proposta di competizione-scontro aperto fra Pd e M5S. Gli elettori progressisti in buona parte disertano le urne, avendo perso del tutto la speranza di una svolta che ne tenga in considerazione gli orientamenti e i bisogni. Il governo Meloni procede fra gaffe, provocazioni, scontri interni, con un’assicurazione sulla vita che sembra provenire più da sponsor esterni, come per un governo tecnico qualsiasi, che dalla sua coesione interna o dalle capacità dei ministri e dei parlamentari della coalizione. Ed è proprio qui che si intravede una occasione per una riapertura di dialogo tra i due ex alleati dell’abortito “campo largo”: i pestaggi squadristici davanti alle scuole, la drammatica inadeguatezza mostrata dagli esponenti governativi di fronte alla tragedia dei migranti naufragati nello Ionio, l’impuntatura ideologica dello stop al superbonus in edilizia, aprono spazi per un lavoro “in parlamento e nel Paese”, come si usa dire. Un lavoro che si chiama opposizione, e che richiede, anzi impone, per essere credibile, di spostare l’attenzione dalla concorrenza Pd-M5S alle battaglie contro il governo Meloni. Che, in questo, è senz’altro il migliore alleato (involontario) per entrambi. “Se non ci concentriamo su questo e non usciamo dalla nostra campagna elettorale permanente – confida un ex ministro contiano– Meloni invece di durare cinque anni ne durerà quindici”.
L’occasione c’è, come dimostra l’abbraccio fra Conte e Schlein (con Maurizio Landini nelle vicinanze) nella piazza antifascista di Firenze. L’occasione c’è ma la strada è stretta: la fase congressuale del Pd ha quasi del tutto ignorato i drammatici cambiamenti che sono conseguenza della guerra e dello scontro fra le potenze globali sulla linea di faglia Oriente/Occidente. Il vecchio mantra identitario “siamo atlantisti ed europeisti”, molto accreditato fra i democratici, è probabilmente sepolto nel passato, o ha cambiato significato nella nuova Unione europea, nella quale tanto peso hanno acquisito gli ultra-sovranisti polacchi, tradizionalmente vicini alle destre italiane. E sull’altro versante, i 5 Stelle fanno sapere che, sulla necessità di una svolta diplomatica e dell’opposizione al riarmo, non ci sarà un appeasement per togliere il Nazareno dall’imbarazzo di dover fare i conti con la presa che le posizioni “pacifiste” di Conte hanno dimostrato di avere su una quota di elettori di sinistra. E si torna quindi allo scenario iniziale: alleanza o concorrenza? Per ora, a dispetto di un dialogo nuovamente possibile con la fine della segreteria Letta, il pendolo probabilmente pende ancora leggermente dal lato concorrenza.