L’esito delle primarie del Pd ha sorpreso molti: ancora alla vigilia, molti illustri sondaggisti erano certi della vittoria di Bonaccini. Ha pesato, certamente, la difficoltà di “sondare” un corpo elettorale assai sfuggente, impossibile da definire a priori nelle sue dimensioni; ma ha pesato anche una fallace inferenza logica: poiché non era mai accaduto (dal 2009 al 2019) che il vincitore del voto tra gli iscritti non vincesse anche nella competizione “allargata” dei gazebo, e poiché Bonaccini aveva nettamente prevalso nella prima tornata, dunque, sembrava scontato che questo accadesse anche per quella successiva. E invece, è saltato tutto: come spiegare tutto ciò?
Forse, la spiegazione è molto più semplice di quanto possa sembrare: un’ampia massa di elettori del Pd, di ex elettori del Pd e di elettori solo potenziali, ha colto l’occasione di queste primarie per mandare un forte segnale politico, con una duplice valenza: una sorta di “investimento” simbolico (anche passando sopra ai possibili dubbi) sulla figura di Elly Schlein, ma anche una sorta di “voto di protesta” contro un candidato, Bonaccini, che (a torto o a ragione) è apparso l’espressione di una continuità oramai perdente e sfibrata. Da un lato, un messaggio di fiducia e di rinnovamento; dall’altro, una visibile stanchezza nei confronti di un’immagine del Pd come partito-sistema, partito di “rassicurante” gestione del presente, e come partito che, pur proclamandosi “asse” dell’alternativa alla destra, nelle ultime elezioni non aveva certo saputo interpretare questo ruolo.
Si è prodotta così un’ondata di opinione che (come sempre più spesso accade) si alza impetuosa e improvvisa e sembra travolgere tutto. Qui sta la forza, ma anche la possibile debolezza del successo di Elly Schlein: non si tratta qui, ovviamente, della famosa “luna di miele” che accompagna l’ascesa al governo di chi vince le elezioni, ma di un’espressione di fiducia in una leadership di partito che, intanto, sappia fare con energia e vigore il lavoro di opposizione alla destra e cominci a delineare una prospettiva. Una leadership che dovrà misurarsi subito con non pochi problemi, giacché, come avevamo notato anche su queste pagine in precedenti articoli (vedi qui e qui), un dibattito propriamente politico e costituente non c’è stato, se non in piccola misura. Basti solo pensare al tema e al problema della collocazione internazionale del partito, di fronte agli sviluppi della guerra in Ucraina.
Alcuni altri aspetti del voto meritano di essere osservati più da vicino. Lo scarto tra voto degli iscritti e voto alle primarie è un tema che ha sollevato molti interrogativi, e tuttavia è davvero strano che oggi si meni scandalo per questa “sconfessione”, quando era del tutto evidente che tale possibilità era insita nella logica stessa originaria delle primarie aperte e del ruolo molto ridotto che lo statuto assegna al voto degli iscritti, ossia la mera scrematura dei primi due candidati. Ma soprattutto appare un tantino sospetto e strumentale, in molti commentatori, questo improvviso ritorno di fiamma verso la figura dell’“iscritto” al partito! Dopo anni e anni in cui è stata teorizzata l’obsolescenza o la scomparsa del partito “novecentesco” (fatto di tessere, iscritti, sezioni, militanti, feste popolari, ecc.), oggi, di fronte alla vittoriosa operazione “Occupy Pd” operata da Schlein e dai suoi entusiasti sostenitori, qualcuno scopre che, in tal modo, la Schlein si troverà in difficoltà, perché avrà il “partito contro” (e quindi, con un consiglio molto interessato che appare sottinteso: moderi i toni! non pretenderà di portare davvero il Pd su quelle sue posizioni “radicali”?). Che dire? Ipocrisie del mercato mediatico, pigrizia intellettuale, comodo rifugiarsi negli stereotipi.
Peccato che queste posizioni ignorino alcuni dati, ossia che il reale grado di rappresentatività degli attuali iscritti (quei 150mila che hanno votato nei circoli) è molto basso e molto distorto territorialmente. Basta guardare il grafico, che mostra per ciascuna area territoriale del Paese, il peso percentuale, sui rispettivi totali nazionali, del voto degli iscritti, del voto ai gazebo, e del voto al Pd il 25 settembre 2022.
Solo alcuni dati: nelle regioni meridionali e nelle isole ha votato il 41,7% del totale degli iscritti, ma poi il 31,5% dei votanti alle primarie (in regioni dove il Pd ha raccolto, il 25 settembre, il 24% dei suoi voti). Andamento inverso nelle regioni del Nord, abbastanza equilibrato quello delle quattro ex “regioni rosse” e del Lazio. Cosa dedurne? Che, a causa dei numeri ridotti e a causa della sua stessa distribuzione territoriale, il voto degli iscritti non si configura come un effettivo “microcosmo” degli elettori del Pd, ma come una sorta di specchio deformato. Non si tratta certo di dire che, per ciò stesso, questi iscritti debbano essere ignorati e che non abbiano alcun ruolo o funzione: solo che appare singolare appellarsi alla divaricazione tra voto degli iscritti e voto degli elettori alle primarie per preconizzare la paralisi della nuova segreteria.
Alla fine, di fronte a certi commenti, non si può fare a meno di dire: ma non lo volevate il “partito contendibile”? Ecco fatto: partito conteso, anzi…. scappato di mano (a chi pensava di tenerlo comunque in pugno). E tra questi, infine, possiamo individuare una categoria speciale che esce con le ossa rotte da questa partita: i famosi sindaci, che avrebbero dovuto assicurare una grande base di consenso a Bonaccini, espressione di concretezza pragmatica, vicini alla gente, “radicati”. Forse in alcune realtà, specie meridionali, e di non grande dimensione demografica, il “peso” dei sindaci si è sentito; ma è un fatto di rilievo nazionale quanto accaduto a Firenze e in Toscana, nella città e nella regione che ha visto nascere il fenomeno Renzi: con il duro colpo subito dal sindaco di Firenze Nardella o dal presidente della Regione Giani. Com’è potuto accadere? Anche qui forse non occorrono spiegazioni complesse: quella del partito degli amministratori (fino alla “proposta indecente” di consentire un ulteriore possibile cumulo di cariche, quella di amministratore locale e quella di segretario del partito), si è rivelata una pura narrazione mitologica. I sindaci, semplicemente, sono eletti o rieletti in quanto sindaci, più o meno apprezzati dai loro concittadini: non per questo il consenso che ricevono può essere “speso” o “tradotto” in consenso politico. Il Pd ha perso perché non ha dato “peso” ai suoi sindaci, quelli davvero capaci di “stare tra la gente” e di parlare “come si parla nei bar”? Suvvia, è persino banale contestare questo automatismo tra consenso amministrativo e consenso politico; eppure, sembra che qualcuno se ne fosse convinto davvero.
Il “tormentone” che ci aspetta nelle prossime settimane, tuttavia, sarà un altro: riuscirà Elly Schlein a “tenere insieme” il partito? Ci saranno uscite e scissioni? Vedremo. Tuttavia alcune cose si possono già dire: la prima è che il clamoroso flop elettorale del duo Renzi-Calenda alle recenti elezioni regionali ha tolto parecchia forza attrattiva a questo “polo”. Davvero conviene andarsene dal Pd per approdare verso lidi improvvisamente apparsi molto incerti e pericolosi? Nel cosiddetto Terzo Polo, si fa un frequente ricorso all’immagine delle “praterie” che la vittoria di Schlein aprirebbe al duo Renzi-Calenda o delle “autostrade” che si profilano. Posso dare un consiglio non richiesto? Lasciate perdere, la metafora della “prateria” e delle “autostrade” porta male: lo sanno bene tutti quelli che, a sinistra del Pd, ma anche a suo tempo a sinistra del Pci, pensavano che si aprissero grandi “spazi”. Non funziona così: oltre tutto, “a sinistra” del Pd si può anche pensare ci siano spazi aperti, distese infinite… ma al “centro”? Come si fa ad aprire una “autostrada” al centro?
La seconda è una questione molto più seria e complessa e costituisce forse la prima grande sfida dinanzi a Elly Schlein: riformare il partito, il suo modello organizzativo e, soprattutto, il circuito tra discussione interna, partecipazione e decisione democratica. Insomma, il modello di democrazia interna, il “regime” di governo del partito: oggi, per i motivi che abbiamo spiegato in altre sedi e occasioni, è un modello insieme plebiscitario e feudale. Introdurre una democrazia interna, insieme rappresentativa, partecipativa e deliberativa, non sarà facile; ma è forse l’unico modo per tenere unite, anche in prospettiva, una pluralità di culture politiche di sinistra e di centrosinistra, che devono trovare un terreno procedurale comune per poter davvero convivere in modo proficuo.