Le promesse vanno mantenute. Soprattutto alla luce di uno scambio. Ed è esattamente quello che sta succedendo a proposito dell’introduzione della concorrenza per la gestione commerciale degli stabilimenti balneari (ne abbiamo già parlato qui e qui). Tu mi dai i tuoi voti e io ti prorogo le concessioni per un altro anno (anzi, forse due) evitando fastidiose gare. L’Europa protesta e minaccia nuove procedure d’infrazione delle regole della concorrenza? Il Consiglio di Stato mastica male? Non ci riguarda, decidiamo noi. Una volta si sarebbe detto “me ne frego”. Si può sintetizzare così il nuovo scontro politico sulla questione annosa delle concessioni degli stabilimenti piazzati sulle spiagge italiane, circa ottomila chilometri di costa di cui quasi la metà privatizzati e gestiti da società piccole e grandi, spesso da famiglie che hanno ereditato la “concessione” da oltre un secolo.
Lo scambio impone però qualche prudenza a un governo che non vuole inimicarsi Bruxelles, e soprattutto non vuole compromettere il grande flusso di risorse del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr). La premier Giorgia Meloni e suoi Fratelli d’Italia – che hanno più volte rivendicato la primogenitura della difesa sindacale degli imprenditori marini insieme a quella dei tassisti – devono destreggiarsi con abilità (quella che piace anche a Letta e Bonaccini?) contro le esagerazioni di Lega e Forza Italia che non vogliono sentire ragioni e si schierano ancora una volta “senza se e senza ma” dalla parte del privilegio da ombrellone.
Le ultime notizie di cronaca raccontano di un governo che ha provato a fare una parziale marcia indietro sui balneari, lasciando intravedere una possibile opposizione del Quirinale. Ma in Senato Lega e Forza Italia hanno fatto muro, e alla fine il decreto legge è passato senza modifiche, confermando la proroga delle concessioni al 2024. Le commissioni Bilancio e Affari costituzionali del Senato avevano appena approvato un’ulteriore proroga di un anno delle attuali concessioni, quindi fino al 31 dicembre 2024, data che potrebbe slittare fino al dicembre 2025 almeno per i Comuni alle prese con un contenzioso in essere o con “difficoltà oggettive legate all’espletamento della procedura stessa”.
Si rimanda anche quel mitico censimento di cui si parla da anni, che dovrebbe chiarire ufficialmente la fotografia dei padroni delle spiagge. È stato infatti prorogato di cinque mesi, da fine febbraio a fine luglio, il termine per l’adozione del “sistema informativo” di rilevazione delle concessioni di beni pubblici (tutti e non solo le spiagge), in pratica il passo necessario per una mappatura aggiornata.
A Bruxelles la mossa non è piaciuta. “Ribadiamo che occorre assicurare la concorrenza, la parità di trattamento degli operatori e proteggere le risorse pubbliche dal rischio di monopolio” –ha dichiarato un portavoce della Commissione Ue. D’altra parte, una procedura d’infrazione è ancora aperta nei confronti dell’Italia e questi ulteriori rinvii non migliorano la situazione. Stesso discorso dal Consiglio di Stato che aveva fissato al 31 dicembre 2023 la fine delle concessioni già prorogate tre volte: la prima al 2015, la seconda al 2020, la terza (governo Conte I) fino al 2023. Nella sentenza si legge che al primo gennaio 2024 “tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto”. Per questo, per arrivare pronti alla scadenza, le gare avrebbero dovuto essere indette entro quest’anno. E invece niente gare e niente censimento.
Alla destra italiana la concorrenza capitalistica piace solo quando fa comodo (forse mai). In questo caso emerge la natura corporativa dei partiti che stanno al governo, ma, siccome la storia non si ripete mai uguale a se stessa, la nuova formula corporativa (oltre a comprendere il tradizionale addomesticamento dei sindacati per evitare qualsiasi tipo di conflittualità anticapitalistica) prevede scambi tra la politica e le lobby più forti. Abbiamo visto il potere dei tassisti, che scendendo in piazza con slogan e mortaretti hanno bloccato la riforma. E così vediamo ora con i balneari che a quanto pare contano come lobby, nonostante la loro apparente frammentazione e parcellizzazione in tante microimprese. Anche se in concorrenza tra loro, i gestori degli stabilimenti balneari si ritrovano sotto la comune bandiera della difesa del privilegio. Quello che c’è, c’è, non si tocca. Mica vorreste rimettere in discussione anni di sacrifici? E poi sulla bandiera c’è il logo del “made in Italy” a cui è stato perfino dedicato un ministero. La destra si spaccia per sinistra: siamo noi a condurre la vera battaglia contro le multinazionali, che potrebbero accaparrarsi le splendide spiagge nostrane.
Dobbiamo quindi rassegnarci? La battaglia della battigia libera è persa per sempre? Non lo sappiamo, ma è chiaro che la politica italiana non vuole neppure ascoltare chi se ne intende di queste cose. Con un candore sorprendente, qualche tempo fa, Flavio Briatore aveva scattato la vera istantanea: quattro milioni di incasso per soli diciassettemila euro di canone. Sono le cifre del Twiga Beach Club di Marina di Pietrasanta (Versilia),stabilimento che incassa milioni di euro ogni anno con i suoi cinquemila metri quadrati di spiaggia in concessione e un canone da pochi spiccioli. La foto di Briatore è confermata dai dati ufficiali. Secondo l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nel 2019 le concessioni demaniali marittime erano 29.693 e di queste 21.581 erano state concesse con un canone annuale inferiore a 2.500 euro. Nello stesso 2019, lo Stato ha incassato in totale 115 milioni di euro in canoni concessori: una cifra molto bassa, se paragonata al giro d’affari complessivo degli stabilimenti balneari, che la società di consulenza Nomisma ha stimato in quindici miliardi di euro all’anno.
Quella dei balneari è una storia tutta italiana. Insieme al censimento andrebbero ricostruite le vicende che hanno portato alla situazione attuale. Si tratta di una storia di scelte economiche e politiche, di scelte ambientali e culturali. Tante onde si sono infrante sulle spiagge dal 1827, anno di avvio del primo stabilimento balneare a Viareggio, tanto tempo è passato dalle storie estive negli stabilimenti “privilegiati dei Bagni marittimi” di Rimini o da quelli del Lido di Venezia, di Napoli e Palermo. Oggi l’Italia è un altro Paese rispetto a quello del boom del turismo balneare degli anni Sessanta e della comparsa dei primi bikini. Oggi gli italiani sono gente completamente diversa dai loro antenati che portavano i loro figli nelle colonie del fascismo, dove anche Benito Mussolini andava per esporre il corpo maschio del duce. Siamo molto cambiati da quei tempi (ma sarà proprio vero?). Tutto cambia, meno le concessioni. Almeno qualche certezza la manteniamo.