Che botta. Un terremoto. Ci fu una copertina del “manifesto”, il giorno del trionfo di Berlusconi, quasi trent’anni fa. Fondo nero, lampadina al centro di una stanza. Lampo di luce e un sinistro “click”. Come dire, “adda passà ’a nuttata”. Poco tempo dopo quel voto, con il suo buio, ci fu un incoraggiante 25 aprile a Milano. Ecco, la sconfitta elettorale di domenica e lunedì, in un quarto dell’Italia (Lombardia e Lazio), lascia più solo quel popolo indomito che, nonostante tutto, in questi anni ha combattuto per riaffermare valori e politiche di un fronte progressista, di sinistra, popolare e cattolico-democratico. E che ha tenuto accesa la fiammella della solidarietà e delle politiche inclusive del welfare.
Tutto questo oggi scricchiola e domani forse non ci sarà più. Dispiace profondamente dovere riconoscere l’onda alta di Giorgia Meloni che, dopo quattro mesi, rischia di trasformarsi in uno tsunami che potrebbe cancellare la storia repubblicana nata dalla Resistenza e dalla sconfitta del nazismo e del fascismo. Che ci porta fuori dall’alveo dell’Europa degli Spinelli, dei Brandt, dei Mitterrand che si sono susseguiti nel tempo. Oggi il nostro orizzonte sembra essere Visegrad, mentre si rinsalda l’asse Parigi-Berlino. Sempre di più filoatlantisti, e sempre più giustizialisti con i deboli e accondiscendenti con i potenti.
Nel giorno del trionfo, Palazzo Chigi fa finta di rimuovere la coabitazione dei separati in casa. Silvio Berlusconi, in altri tempi, avrebbe gioito per la decisione del governo di ritirarsi dalla costituzione di parte civile nel processo “Ruby ter” che lo vede imputato. Ma è sempre più lontano (lui – ma anche Matteo Salvini) da Giorgia Meloni sul sostegno all’Ucraina di Zelensky. Dovrebbe essere uno scandalo, dovrebbe suscitare un moto d’indignazione – ma Berlusconi e Salvini non hanno imbarazzo nel sostenere apertamente la Russia di Putin.
Che Paese, l’Italia. Ammutolito Giuseppe Conte, che aveva scommesso di trasformare i 5 Stelle in Bruto che pugnala il Cesare-Pd. Sparita l’arroganza del Pierino che sa tutto, quella di Carlo Calenda (e del suo compare, Matteo Renzi). Gigantesco il buco nero dei senza-speranza, di coloro che hanno smesso di credere, di sentirsi cittadini. A Roma ha votato un elettore su tre, a Milano quattro su dieci.
È un’Italia, oggi, che ha celebrato la fine della prima Repubblica, perché la seconda in realtà non è mai decollata. Anche la magistratura, che è stata attraversata da un anelito di giustizia e libertà, celebra oggi il potere, a cui si sottomette. Forse consapevole dei suoi errori.
Il vecchio e il nuovo ceto politico dovrebbero ritirarsi in pensione. Sa di vecchio persino il movimento di Grillo. Un ventennio è durata la novità di Berlusconi, pochi anni quella di Tonino Di Pietro, e lo stesso Matteo Salvini oggi galleggia. I grandi servitori dello Stato, come l’ex governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, sono già avvolti dalla nebbia dell’oblio. È vero, se leggessimo i risultati elettorali dal punto di vista dei numeri in assoluto, il trionfo della destra avrebbe ben altra accoglienza. Hanno vinto, e su questo non si può discutere. Quell’Italia ferita a morte – della sinistra che fu, della cultura laica e popolare, del cattolicesimo rappresentato da papa Francesco – soffre, è moribonda.
Quell’Italia che ci ha fatto innamorare e sostenere i valori solidaristici e di legalità, oggi non c’è più. Il “campo largo” va ricostruito. C’è bisogno di un nuovo cantiere. I vecchi maestri non servono più. Si sono rivelati fallimentari. E neppure le case che avevano costruito possono spalancare porte e finestre per ritornare a essere luminose. Il giorno dopo la sconfitta, Elly Schlein, candidata a segretaria del Pd, ammette che è stato sbagliato inseguire il centro e si deve tornare a sinistra. Parole che risuonano come un placebo, quando servirebbe una incisiva terapia di antibiotici per curare il malato.
Oggi dobbiamo rimetterci in cammino. Ricostruire le ragioni di una comunità che non ha più valori e idee in cui riconoscersi. Oggi dirsi socialista sembra una bestemmia, o una parola vuota. Torniamo a immaginare un progetto di speranza, o anche semplicemente a sognare.