
Si è molto parlato della nuova miniserie britannica che, come denuncia già il titolo, Adolescence, mette al centro del discorso l’enigma rappresentato dalla cosiddetta “età acerba”. L’opera merita la nostra attenzione: ideata da Jack Thorne e Stephen Graham e diretta da Philip Barantini (disponibile su Netflix), si distingue per la scelta formale (piano-sequenza) e per l’abilità della scrittura, volontariamente disancorata dalla ricerca del colpevole. Già nella prima puntata, infatti, sappiamo che un tredicenne ha accoltellato a morte una sua compagna di scuola. Il resto è indagine, ricostruzione, paura, incredulità, sconforto, incapacità di capire fino in fondo il perché. Non si scagiona nessuno, né si colpevolizzano in modo perentorio famiglia, scuola, compagni. Quello che accade nel deep web – ci dice Adolescence – è il grande buco nero, la voragine dentro la quale finiscono frustrazioni non espresse o inascoltate, desideri ancestrali di vendetta, pulsioni che nessuno capisce.
Anche questo discorso non è, naturalmente, conclusivo. Da solo non basta a spiegare perché una creatura da poco uscita dall’infanzia prenda un coltello, prestatogli da un amico, per infierire sul corpo di una compagna che, forse, l’aveva umiliato e deriso. Emerge un nuovo vocabolario legato a una realtà “suprematista”, la cosiddetta “manosfera”, che spingerebbe i giovani maschi a vendicarsi delle loro compagne che li fanno sentire inetti, inutili, indesiderabili. È una traccia interessante, una delle tante piste che educatori, genitori e politici avrebbero l’obbligo di seguire.
Non da oggi l’adolescenza, con i suoi turbamenti e i suoi gesti irrazionali, spesso violenti, la sua postura petrosa e inamovibile, è sotto osservazione. Romanzesca o scientifica, la letteratura sul tema è sterminata. Ci fermeremo ad analizzare qui un solo esempio, di per sé paradigmatico. In occasione della messa in scena di Equus di Peter Shaffer, regia di Carlo Sciaccaluga, al Teatro Duse di Genova – uno di quegli spettacoli che lasciano lo spettatore turbato, con i sensi allertati, disposto all’azione – si è svolto un dibattito pubblico che ha coinvolto, oltre al regista, tre psichiatri: Pietro Ciliberti (psichiatra forense e presidente ligure della Società italiana di psichiatria), Gianluca Serafini (direttore della Clinica psichiatrica universitaria di San Martino di Genova) e Rocco Picci (a capo del Dipartimento di salute mentale e dipendenze Asl3 del capoluogo ligure). Tutti e tre hanno descritto “un eterno presente” in cui vivono gli adolescenti di oggi, incapaci di coniugare i propri pensieri al passato e al futuro. Ciliberti la definisce “pietrificazione del presente”, una condizione in cui non si cerca che un accumulo di sensazioni sempre più sensazionali, e alla fine distruttive. Serafini ha fatto riferimento al nichilismo, mentre Rocco invita a osservare il rapporto che gli adolescenti hanno con il proprio corpo, considerato un campo di battaglia, uno sconosciuto verso cui si prova disgusto e che si vorrebbe cancellare (di qui l’autolesionismo).
Pietro Ciliberti confessa: “Dopo la visione di Equus, non ho dormito per l’intera notte”. Cosa gli ha tolto il sonno? Si sarà forse identificato con Dysart, lo psichiatra che cerca di entrare nel labirinto mentale di Alan, fino a rimanerne contagiato? Di sicuro è difficile rimanere indifferenti rispetto alla materia trattata da Shaffer e Sciaccaluga. Più conosciuto per Amadeus (da cui Milos Forman trasse l’omonimo film del 1984), il drammaturgo e sceneggiatore inglese scrisse Equus nel 1973, basandosi su un fatto di cronaca: “Stavo andando in macchina assieme a un amico attraverso un triste paesaggio di campagna. Passammo attraverso una scuderia. Vedendola, improvvisamente il mio amico si ricordò di un allucinante crimine di cui aveva sentito parlare a una festa a Londra”, annotava lo stesso scrittore. “Il fatto era stato commesso diversi anni prima da un ragazzo squilibrato e aveva scosso profondamente i magistrati del luogo. E mancava di una spiegazione coerente”.
Sembra l’inizio di un racconto di Hoffmann. Del fantastico, e del demoniaco, l’opera conserva infatti i tratti. Spinto dalla curiosità, Shaffer immaginò un mondo mentale in cui un fatto del genere potesse risultare, se non comprensibile, almeno narrabile. Il fatto era, in effetti, pauroso: di notte, un minorenne aveva accecato sei cavalli, apparentemente senza una ragione.
Nasce così Equus, opera drammatica a metà tra un racconto gotico e una sceneggiatura di Hitchcock. Andato in scena per la prima volta al National Theatre di Londra, nel luglio del 1973, con la regia di John Dexter, nel 1975 venne allestito in Italia da Marco Sciaccaluga (il celebre regista italiano, padre di Carlo, è scomparso nel 2021) proprio al Teatro Stabile di Genova–Teatro Eleonora Duse, allora diretto da Ivo Chiesa. Nel 1977, Sidney Lumet ne realizzò una versione cinematografica, affidando la sceneggiatura allo stesso Shaffer, che per quei dialoghi si guadagnò una candidatura all’Oscar, mentre le altre due candidature furono per Richard Burton (lo psichiatra) e Peter Firth (il paziente). Quest’ultimo, che avrebbe poi vinto il Golden Globe come attore non protagonista, interpretava Alan anche nella prima versione londinese e nella successiva edizione newyorchese al Plymouth Theatre, dove Dysart era Anthony Hopkins. Sempre a Broadway, il ruolo dello psichiatra sarebbe stato poi interpretato da Anthony Perkins e da Richard Burton, in accoppiata con Tom Hulce. Insomma, in Inghilterra e in America, Equus – premiato nel 1975 con un Tony Award – non ha mai smesso di esercitare il suo potere d’attrazione.
Il nuovo spettacolo, che merita di girare in lungo e in largo per l’Italia con il suo bagaglio di conoscenze teatrali e psicoanalitiche, ci dice molto non solo sui disturbi e le richieste d’aiuto degli adolescenti, ma anche sulla tendenza degli adulti a seppellire tutto, compresi se stessi, in una tomba, molto prima di essere veramente morti.
Un gigantesco occhio, insieme labirinto e spirale, accoglie i vari quadri che ruotano attorno alle sedute di Alan (c’è da scommettere che, per questo ruolo, Pietro Giannini vincerà tutti i premi teatrali) con Dysert (il bravissimo Luca Zazzareschi, capace di una intelligenza scenica e di una misura che si trovano così raramente sui nostri palcoscenici). Lo psichiatra incontra la madre di Alan, ex maestra d’asilo ossessionata dalla religione (fantastica attrice, Pia Lanciotti), il padre di Alan, un tipografo meno bigotto ma più ipocrita della moglie (convincente, Paolo Cresta), la ragazza che Alan ha visto la sera prima del crimine (Giulia Prevedello, giusta per il ruolo), raccogliendo indizi che possano aiutarlo a trovare la formula giusta per leggere l’enigma rappresentato da Alan Strang. Di tutto questo, lo psichiatra parla con Ester Salomon (l’intuitiva, attenta Camilla Semino Fabro), giovane magistrata del tribunale dei minori che gli ha affidato il caso, e dalla quale sembra attratto.
Mentre cerca di penetrare nel nero di quella notte in cui Alan compì il crimine, lo psichiatra comincia a vacillare, arrivando a dubitare di se stesso. Il varco psichico, che si apre al passaggio di Alan, porta i segni di un viaggio mitico, spirituale. E se è vero, come sosteneva Jung, che il sogno è il mito dell’individuo e che il mito è il sogno della collettività, la stessa trascrizione delle sedute con Alan diventa azione rivoltosa, gesto incongruo, che impone un salto di dimensione.
A un primo livello, la passione di Alan per i cavalli ha a che fare con un precoce desiderio omosessuale che si fa strada, confusamente, tra interdizioni sociali e analfabetismo emotivo: il ragazzo passa intere giornate incollato al televisore, ripetendo come litanie i jingle pubblicitari. Ma c’è qualcosa di più nel suo delirio, un senso non traducibile per i manuali di psichiatria. Di qui l’insonnia di Ciliberti. Se, negli anni Settanta, gli adolescenti erano ipnotizzati dalla tv, oggi sono gli smartphone gli oggetti che aprono al cuore di tenebra dell’Occidente. Cambiano le tecnologie, ma il rebus è ancora tutto da sciogliere. C’è, però, in Equus, più di un indizio che ci aiuta a nominare le strade tortuose, deliranti, che prende la mente quando il desiderio subisce una deviazione, non riuscendo a trovare una strada per dire di sé.
La presenza animale richiama la dimensione del sacro: “Ora se ne è a riposare, e mi ha lasciato solo con Equus. Sento la voce di questa creatura. Mi chiama. Mi chiama dall’antro oscuro della Psiche. Guardo dentro, con la fievole luce della mia povera torcia, ed è là, che mi aspetta”, dice Dysart, che è non solo uno psichiatra ma anche un fine conoscitore del mondo greco. Lo sguardo di Equus indica, dunque, una via maestra all’inconscio e a quello che di mitico è rimasto in noi. James Hillman parlava, in proposito, di “vana fuga dagli dèi”: “Le persone non sono soltanto persone, gli esseri umani non sono soltanto umani, e nell’aspetto del corpo si possono leggere manifestazioni archetipiche dello spirito”.
Il problema non sono gli adolescenti. Né quelli di oggi né quelli di ieri. Il problema siamo noi adulti che non sappiamo come leggere non tanto le chat dei nostri ragazzi, il loro astruso vocabolario (alla fine, si trova una traduzione a tutto), ma le nostre stesse derive, gli abissi, il terrore, il desiderio e la grandezza dell’immagine mitica che amnesie, lapsus, sogni e veglie involontarie continuano a nominare, come se non fossero mai stanchi di ripeterci quello che stiamo perdendo, uccidendo e dimenticando. E non sarà certo invocando una scuola più repressiva o punizioni domestiche che si risolverà il problema.
La questione è, ovviamente, culturale, e quindi in senso lato politica. Alan non sa come parlare al suo mondo del mondo che ha dentro. Non trovando una luce, brancola nel buio. Invece di accecare se stesso, acceca i cavalli, finendo con l’impazzire del tutto. Il protagonista di Adolescence si sente solo, brutto, non desiderato, uno scarto neanche troppo umano, un rifiuto della società destinato a restare celibe. Succede qualcosa, a scuola, qualcosa di umiliante. C’entra il bullismo o il cyberbullismo (questione serissima). Perché non riesce a parlarne con i genitori o con la sorella? Come si arriva al crimine? Quanta rabbia si ha dentro per arrivare a usare un coltello? Non esiste il tabù del sangue? Si è forse così atoni, spenti, da non sentire neanche più la vita che scorre in noi?
Sono le domande che, dopo, molti si fanno. Nell’incuria generale, dopo una tragedia, si intervistano sociologi, genitori, educatori. Ognuno dice quello che può. Ma qui non si tratta di esprimere opinioni, si tratta di capire, di “com-patire”, di vegliare, senza distrazioni (i nostri jingle pubblicitari), in ascolto dei sintomi (i loro sintomi e i nostri sintomi), costi quel che costi. Anche una discesa agli inferi.
Nella foto tre attori di Equus: Luca Lazzareschi, Pietro Giannini e Pia Lanciotti