
Pochi ricorderanno il nome del professor Luigi Broglio, che guidò la prima agenzia spaziale italiana, che permise all’Italia, negli anni Sessanta, di essere il terzo Paese al mondo – dopo le due superpotenze del tempo, Stati Uniti e Urss – a mettere in orbita un proprio satellite, il San Marco. In quegli anni, a ridosso del miracolo economico, nel 1963-64, l’Italia viveva un piccolo rinascimento che la collocava al vertice delle tecnologie del tempo, con l’Olivetti di un visionario Adriano, che però scomparve già nel 1960, la leadership sul mercato petrolifero dell’Eni di un Enrico Mattei, morto nell’ancora misterioso “incidente” aereo del 1962, con il Nobel a Giulio Natta per la chimica nel 1963, e la prima centrale elettronucleare europea realizzata dal Cnen di Felice Ippolito, coinvolto poi artatamente in uno scandalo che lo tolse dalla scena. Un Paese inconsapevolmente interprete della nuova stagione scientifica che si era aperta, soffocato nella culla dai suoi alleati atlantici, non senza considerare l’assoluta estraneità e (perché no?) ignoranza, della politica del tempo, che ancora inseguiva i prodigi dell’industria pesante tradizionale.
Oggi, con la stessa ignoranza, le istituzioni nazionali assistono a un nuovo miracolo nazionale: l’Italia, dopo anni di retorica sull’arretratezza tecnologica, si trova a essere il terzo Paese al mondo per potenza di calcolo. Nei nostri confini nazionali sono collocati quattordici supercalcolatori, che rappresentano il 7,8% della capacità computazionale globale. Questi apparati strategici sono gestiti da diversi soggetti, privati, come iGenius o Fastweb, oppure pubblici come Eni o Leonardo. Inoltre, sono già due i calcolatori quantistici attualmente attivi in Italia, uno a Napoli e il secondo a Bologna, presso il Cineca, il consorzio universitario, che sarà già rimpiazzato nei prossimi mesi con una nuova versione ancora più potente ed efficace.
Ma esattamente come accadde sessant’anni fa, quando i primi sforzi autonomi italiani furono smantellati rapidamente da interventi esterni, e soprattutto da un’indifferenza politica che univa governo e opposizione di sinistra, oggi questo patrimonio tecnologico non appare presidiato politicamente, tanto meno connesso a una strategia di largo respiro.
La domanda da porsi è cosa ci facciamo con tutta questa potenza di calcolo? Al momento, per una parte assolutamente ridotta, viene usata per progetti di singole aziende, che sperimentano e testano soluzioni basate sull’intelligenza artificiale. Oppure, come nel caso del calcolatore di Bologna del Cineca, viene usato per programmi di addestramento di spezzoni di singole intelligenze artificiali, come per il gruppo franco-americano Mistral. Ma è come se usassimo una Ferrari per accompagnare i figli a scuola. Oppure come se avessimo grandi giacimenti di petrolio da sfruttare solo per alimentare le trivelle che lo estraggono. Insomma, manca un’idea che dia forma e obiettivo a tale risorsa.
Come per i satelliti di Broglio, anche la capacità di calcolo oggi non può essere separata da una bussola geopolitica e geoeconomica. In sostanza, si tratta di capire che ruolo voglia giocare l’Italia nella competizione globale, o in quella che una volta avremmo chiamato la divisione internazionale dell’Europa. Vogliamo essere partner di un piano europeo di sviluppo delle applicazioni digitali? Vogliamo concorrere a rendere indipendente il nostro Paese in settori vitali quali la sanità di precisione, l’agricoltura di pregio, le nuove biotecnologie o la farmaceutica, o ancora nella valorizzazione dei patrimoni culturali e artistici (tanto per citare i settori forti del made in Italy)? E con quale visione strategica vogliamo farlo? Vogliamo integrare la potenza di calcolo con sistemi di memorie, i-cloud e microchip, gli elementi di base di ogni computer, che non ci leghino ai produttori americani? O ancora, vogliamo varare un grande progetto per la pubblica amministrazione e la scuola, che renda il Paese efficiente e attrattivo per le nuove professioni? Insomma, dobbiamo dare un’anima a questi calcolatori, altrimenti rimarranno monumenti inerti, e ricadranno su se stessi, esattamente come accadde ai satelliti San Marco.
In chiave politica, questo significa per la sinistra riflettere sulla capacità di parlare a un “popolo della tecnologia”, ai milioni di studenti, ricercatori, e docenti che gravitano sul linguaggio informatico, e con essi a quelle centinaia di migliaia di creativi che proprio in questi giorni, a Milano, stanno mettendo in mostra, nella “Design Week” del Salone del mobile, la propria competitiva sensibilità e abilità.
Infine, si tratta di trovare una proposta che congiunga e mobiliti tutte queste aspettative e capacità, un disegno di riorganizzazione del mercato, che contrapponga alla centralità della proprietà, sia pubblica, come negli Stati Uniti, sia statale, come in Cina, un’idea circolare di condivisione e riprogrammazione dei beni comuni quali sono i dati e il software. Per questo, sarebbe urgente promuovere un progetto europeo, che nasca e sia coltivato prevalentemente in Italia, di addestramento specifico delle diverse intelligenze artificiali mediante i linguaggi delle memorie letterarie e artistiche, di cui siamo indiscussi maestri, per rendere questi dispositivi sempre più affini agli utenti e non ai proprietari.
Se oggi non è politica questa, cosa dev’essere allora?