
Non è poi difficile capire il perché del successo della manifestazione di sabato 5 aprile, che, come dice Paolo Barbieri (vedi qui), “ha travalicato ampiamente i confini dell’attivismo a 5 Stelle”. Molte persone non ne possono più di sentir parlare di guerra ormai da tre anni e quasi di nient’altro, se non da ultimo dei dazi di Trump. È diverso quello che ci si aspetterebbe dall’Unione europea: investimenti per fare uscire l’automotive dalla crisi, per esempio, e in sanità, formazione, ricerca. Non è vero, come crede qualche opinionista (pensiamo ad Alessandro De Angelis sulla “Stampa”), che quella piazza sia nei fatti filoputiniana. È vera un’altra cosa: che qualsiasi manifestazione si fa per spingere la politica del proprio campo verso una posizione che non è quella prevalente. Essa ha preferibilmente un contenuto autocritico: non avrebbe senso prendersela con qualcuno che per definizione è lontano e non ascolta, nel caso la Russia di Putin, a meno di non voler ritornare all’epoca delle manifestazioni nazionaliste rivolte verso questa o quella potenza straniera.
Ciò sia detto in generale. Ci sono però motivi più particolari per manifestare contro un riarmo strombazzato ai quattro venti, ma che, nella forma in cui si suppone che debba avvenire, non sembra affatto un passo verso la difesa comune europea. Anche ammesso che si voglia pensare – e questo sarebbe condivisibile – di sganciarsi dalla storica tutela americana e a una maggiore integrazione dell’Europa in tema di armamenti e deterrenza, l’attuale piano di von der Leyen non va in questa direzione. Si cominci con l’uscire una volta per tutte dall’austerità, dai patti di stabilità; si faccia quello che, a livello nazionale, si appresta a fare la Germania che sta inquadrando il forte aumento delle spese militari in una eliminazione del freno al debito. Il fatto che perfino la Linke (vedi qui) in una votazione abbia sostenuto questo programma non è un tradimento dei propri elettori, è quello che una forza politica di sinistra in certi casi deve fare – anche in termini di compromesso – per aprire la strada a un incremento della spesa pubblica, con tutte le possibili ricadute sull’economia reale, sui posti di lavoro ecc., che ciò porta con sé.
Si sente dire che il pacifismo a oltranza, quello “senza se e senza ma”, non avrebbe più ragion d’essere nella situazione attuale. Ma come le manifestazioni sono un momento autocritico all’interno del proprio campo, nella fattispecie quello europeo, così il pacifismo coerente – non quello dei protezionisti e dei nazionalisti che bada al proprio particulare – è un’autocritica del mondo capitalistico nel suo complesso. È la coscienza che una guerra, oltre alle vittime che miete, alla barbarie che porta con sé, oggi è anche un terribile momento di “insostenibilità ambientale”, una conferma della piega autodistruttiva che la stessa presenza umana sulla terra sta prendendo. Queste cose vanno ricordate a chi vorrebbe riporre in un cassetto il Green Deal europeo, proprio una tra le non molte cose buone che l’Unione europea sia riuscita a tirare fuori.
Ancora, ed è il capitolo più spinoso implicito nella manifestazione di sabato scorso, c’è un problema di posizionamento delle opposizioni al governo Meloni nella fase attuale. Le elezioni, a meno di imprevisti, saranno nel 2027. Già alla fine di quest’anno, al massimo nei primi mesi del 2026, si dovrà capire quale sia lo schieramento alternativo: chi ne farà parte e chi no. Si dovrà soprattutto avere chiaro quale sia l’orientamento politico complessivo della coalizione che si candiderà a governare il Paese. Al momento siamo ancora in alto mare. O nel pieno delle tattiche di quella che si chiama la politique politicienne. Conte si è voluto evidentemente mettere in luce con la manifestazione, e ci è riuscito. Ma al di là di essa, resta il fatto che una piattaforma programmatica, diciamo pure un compromesso che abbia al centro il Pd e i 5 Stelle in quanto forze maggiori della coalizione, dovrà pure delinearsi mettendosi prima intorno a un tavolo.
Per quanto ci riguarda, non vediamo alternative a una candidatura di Elly Schlein alla guida della coalizione e alla presidenza del Consiglio. Il tempo di Conte è trascorso, il suo opportunismo (prima con la Lega, poi con la sinistra), anche a volergli riconoscere una dose di onestà (non va dimenticato che il suo primo governo nacque dall’indisponibilità del Pd renziano a stringere un’alleanza), non appare in linea con le aspettative attuali. Ed è giusto soprattutto che, in chiave anti-Meloni, ci sia la candidatura di una donna. Altra cosa non trascurabile: il Pd è il maggiore partito della probabile coalizione, è quindi ovvio che ne esprima la leadership.
Ma ci sono, lo sappiamo fin troppo bene, quelli che nel Pd sono contrari alla costruzione di un’alternativa imperniata su un rapporto con i 5 Stelle, e che addirittura vagheggiano nuove “larghe intese”, puntando magari su una crisi del governo Meloni, aperta da Forza Italia, che metta fuori la Lega. A questa ipotesi il gruppo della segretaria deve opporsi nel modo più deciso, anche mettendo nel conto una scissione nel Pd. La situazione del Paese, e di una sinistra colpita dall’astensionismo, non consentono giochini del genere. Con un congresso o una conferenza programmatica, Schlein potrà confermare di avere ancora la maggioranza nel partito. È un chiarimento da fare al più presto.