
Ha suscitato una valanga di polemiche la scelta, apparentemente schizofrenica, che ha portato la Linke, appena resuscitata dopo una lunga crisi interna, grazie a un esito elettorale positivo e a una politica di ringiovanimento dei quadri dirigenti, a votare “no” al pacchetto Merz per il riarmo nel Bundestag, il parlamento tedesco, e “sì” invece al medesimo pacchetto nel Bundesrat, il parlamento delle regioni. Non sono mancati titoloni sul fatto che perfino il partito della sinistra abbia votato a favore del provvedimento. Diversi quotidiani hanno parlato di una Linke che vota “i crediti di guerra”, con evidente allusione al precedente storico della socialdemocrazia tedesca che votò a favore dei crediti di guerra nel 1914, rinnegando tutti i precetti dell’internazionalismo.
Yannis Varoufakis ha scritto un articolo di fuoco sul voto al Bundesrat, insistendo appunto sulla fine delle speranze riposte nella Linke e sull’affermarsi di un “keynesismo di guerra”. In una intervista recente alla rivista “Jacobin”, Heidi Reichinnek, co-presidente e portavoce del partito, pur dichiarando che “avrebbe preferito un’altra scelta da parte dei rappresentanti locali”, ha cercato di giustificare quanto avvenuto sostenendo che il voto a favore sarebbe stato dovuto unicamente a motivi di opportunità pratica: nei parlamenti regionali, in cui la Linke è al governo come parte di coalizioni, la spinta ad accettare il provvedimento che finalmente, dopo anni di ristrettezze economiche dei Länder, offriva la possibilità di ampliare la spesa è stata fortissima – e per questo la Linke ha votato insieme a Spd e Cdu. Nell’intervista, si parla di un vero e proprio ricatto esercitato sui Länder, che hanno a disposizione risorse decisamente insufficienti per tutti i compiti che devono svolgere, e così non si sono sottratti alla seduzione dei milioni che affluiranno attraverso lo sblocco del debito. Reichinnek, peraltro, ha ribadito la posizione del partito a livello nazionale e reiterato le critiche al pacchetto, che sospende il freno al debito solo per le spese per la difesa superiori all’1% del Pil, denunciando il rischio dell’innescarsi di una vera e propria spirale di corsa al riarmo, cui si dichiara radicalmente contraria. Per gli armamenti, c’è un assegno in bianco – ha detto –, e al tempo stesso si annuncia che si dovranno fare pesanti tagli nel settore sociale.
Queste considerazioni nulla tolgono al fatto che il voto nei Länder abbia suscitato sconcerto, soprattutto tra i giovani che avevano votato il partito nell’ultima tornata; sono però molto indicative del clima che si è creato nel Paese. La Germania esita, ma in fondo non si scandalizza più di tanto di fronte al balzo d’epoca in corso, e la Zeitwende, di cui parlò a suo tempo Scholz, si fa realtà che attraversa tutte le forze politiche.
In occasione della conferenza “Europe 2025”, la ministra degli Esteri uscente, Annalena Baerbock dei verdi, ha lanciato un monito parlando del profilarsi di un’“epoca della spietatezza”. La “Zeit” riporta che Baerbock considera inevitabile la creazione di una vera difesa europea, sostenendo che sia “questione di tempo”, e che l’Europa non possa più permettersi di dipendere dalla protezione militare statunitense. L’articolo rivela un altro dettaglio interessante: Baerbock avrebbe indicato come suo successore preferito il collega Boris Pistorius della Spd, attuale ministro della Difesa, tra i più accesi sostenitori del riarmo.
Tre ex commissari parlamentari incaricati delle forze armate – tra cui Hans-Peter Bartels (Spd) – hanno lanciato un appello congiunto affinché il nuovo governo reintroduca il servizio militare obbligatorio nel contratto di coalizione, sostenendo che, senza un contributo obbligatorio da parte della popolazione, non sarà possibile colmare i gravi deficit di personale della Bundeswehr. Secondo i firmatari, la situazione internazionale richiede un rafforzamento rapido ed efficace delle capacità difensive del Paese, e l’attuale modello, basato solo sul volontariato, non è più adeguato. I tre ex garanti invitano Cdu e Spd a superare le esitazioni politiche e a inserire esplicitamente il ripristino della leva obbligatoria nel programma del nuovo esecutivo. In un’intervista al “Tagesspiegel”, Bartels afferma che “l’epoca dell’esercito esclusivamente volontario è irrevocabilmente finita”, e che le mutate condizioni di sicurezza richiedono una risposta strutturale che solo un servizio di leva può garantire. Non si tratta di una iniziativa isolata: il dibattito sulla leva obbligatoria sta uscendo dal tabù da cui era stato a lungo circondato: per la prima volta, esponenti di spicco di entrambi i maggiori partiti dichiarano apertamente che il ritorno di una forma di servizio di leva è non solo auspicabile, ma necessario per la capacità difensiva del Paese.
L’imprenditoria stappa lo champagne, le quotazioni in borsa delle industrie degli armamenti si impennano, e si mette in moto una macchina inedita che trova meno oppositori di quanti si sarebbe potuto pensare. Tranne rare eccezioni, la stampa tedesca mantiene toni molto contenuti sulla Aufrüstung, sul nuovo riarmo, e ne sottolinea principalmente gli aspetti economici. Stranamente, il fantasma dell’espansionismo russo, così ricorrente in Italia, compare raramente negli articoli, mentre si sottolineano le ricadute economiche delle politiche di rilancio della produzione bellica e del pacchetto infrastrutturale.
Così lo spirito dell’epoca, in un clima relativamente tranquillo, vede la sinistra scivolare rapidamente da una posizione pacifista e antimilitarista, profondamente radicata non solo nella Linke ma anche nella Spd e nei verdi, verso un’altra più possibilista in fatto di armi. “La pace era ieri”, titolava malinconicamente il quotidiano “Taz”. Ma cambiano anche gli orientamenti di quel ceto medio che è l’ossatura della opinione pubblica tedesca, che comincia a intravedere nel bazooka di Merz la via di una fuoriuscita dalla crisi degli ultimi anni, e nell’economia di guerra un’opportunità per riacquistare benessere e potere di acquisto.
Gli ambienti industriali plaudono alla fine dell’austerità e invocano, anzi, ulteriori sgravi e tagli alla burocrazia, ritenuti indispensabili per rilanciare la competitività delle imprese e stimolare gli investimenti privati. Secondo la Deutscher Industrie und Handelskammertag, il sistema produttivo tedesco soffre da anni per l’eccesso di oneri amministrativi e per procedure lente e complesse, che ostacolano l’innovazione e la crescita. In questo contesto, la disponibilità di risorse pubbliche straordinarie dovrebbe essere accompagnata da una semplificazione normativa e da riforme strutturali, affinché l’aumento della spesa si traduca in un effettivo miglioramento della situazione.
Non tutti concordano con questa visione: in un intervento sulla “Zeit”, sette autorevoli economisti avvertono che questi “pacchetti di debito” sono pericolosi e la loro gestione potrebbero minare la stabilità economica. Anche qualche rappresentante dell’opposizione liberale e conservatrice sostiene che “il benessere futuro è a rischio” se si seppellisce la disciplina fiscale. Al contrario, le voci progressiste replicano che investimenti massicci sono essenziali per far ripartire la crescita dopo due anni di recessione. Certo è che la nuova “grande coalizione” punta su un indebitamento gigantesco per rinnovare il Paese, renderlo capace di difesa autonoma e uscire dalla crisi, ma dovrà accompagnarlo con riforme strutturali per evitare pericolosi effetti collaterali.
Tra applausi e voci critiche, la Germania si avvia a diventare qualcosa di diverso dal Paese che abbiamo conosciuto dal dopoguerra a oggi. Rimane da comprendere come la gestione e la ricaduta del “finanziamento illimitato”, sufficiente a sostenere non una sola ma diverse guerre, stia cambiando e continuerà a cambiare la politica tedesca, già da tempo scossa e rimescolata dal conflitto in Ucraina. Il vecchio ordine e la stessa struttura dei partiti storici potrebbero essere travolti dall’impatto potente delle trasformazioni oggi innescate. Le società che si riarmano sono soggette a cambiamenti politici, economici, sociali e culturali accelerati. Si attivano processi di mutamento che portano a una trasformazione di attori, strutture e norme. Vecchie strutture politiche e modelli ideologici consolidati perdono valore. Già per von Clausewitz, infatti, “è la politica il grembo della guerra”.