
Inquietante e scoraggiante. Sono i primi aggettivi che vengono alla mente assistendo allo spettacolo di questi giorni, dopo la dichiarazione di guerra commerciale mondiale dichiarata da Donald Trump per far ripartire l’età dell’oro americana, riportare l’industria agli splendori di un tempo e difendere gli Stati Uniti dal grande sfruttamento dei Paesi competitori. Molti gridano alla follia, più o meno lucida, del presidente e dei suoi più stretti collaboratori. Alcuni commentatori, seppure con grande esperienza alle spalle, hanno invece dismesso qualsiasi capacità critica per fare da ufficio stampa della Casa Bianca. Altri, sperando di ottenere un qualche beneficio dall’imperatore, invitano alla calma e cercano di sdrammatizzare gli avvenimenti. In particolare, abbiamo visto politici nostrani (non c’è bisogno di fare nomi) criticare addirittura l’uso della parola “guerra”, invitando a mantenere la calma come se fossero dei veri operatori di Borsa capaci di manovrare i conflitti finanziari e dare consigli su come proteggere le imprese nazionali e i risparmi delle famiglie. Sentendoli, ritornano alla mente i tempi del comandante Schettino.
La situazione, però, è troppo seria per poterci scherzare sopra, e neppure la satira riesce a stare più al passo con i tempi. La confusione è totale e – come succede sempre durante le tragedie – favorisce gli avvoltoi. Un primo compito meritevole del sistema di informazione e della politica sarebbe dunque quello di fare un po’ di chiarezza, diradare il polverone che si è sollevato e che ci impedisce di vedere. Un primo piccolo contributo per capire riguarda i meccanismi reali della finanza virtuale. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. Quando si parla di milioni di dollari “bruciati” si usa un termine improprio (questo sì). Quando le Borse vanno a picco come in queste ore non si bruciano soldi, ma si deprezza il valore delle società che detengono i titoli, che vanno in picchiata. Ma i soldi non si perdono, si spostano, passano di mano in mano. Se c’è qualcuno che ci perde, nel grande gioco delle scommesse finanziarie, c’è sempre anche qualcuno che ci guadagna. Chi ci sta guadagnando? Quali saranno le conseguenze reali sull’economia mondiale? E soprattutto come si fa a difendere davvero quei miliardi di persone che vivono di lavoro e non di speculazione, in una situazione paradossale in cui sono proprio quelli che ci perderanno di più (come gli operai che hanno votato il tycoon) a spellarsi le mani per applaudire?
Si tratterebbe, per esempio, di fare chiarezza sulla tagliola dell’inflazione (e della possibile conseguente recessione) che, com’è noto, colpisce sempre gli strati più deboli della popolazione, e chiarire anche quali sono gli interessi reali dei lavoratori che sperano di avere una vecchiaia serena sulla base dei risparmi destinati ai fondi pensione, ma che ora sono seriamente a rischio di vedere deprezzato il valore del gruzzolo accumulato. Come sappiamo, la grande vittoria del capitalismo finanziario è stata proprio la distruzione della solidarietà tra classi lavoratrici di Paesi diversi. Qual è (se c’è) il filo che lega oggi un operaio americano a uno cinese? La situazione è davvero paradossale. L’unica vera globalizzazione, dai tempi del Wto, è stata quella finanziaria, che ha seppellito qualsiasi richiamo a quell’internazionalismo che aveva da sempre caratterizzato la sinistra mondiale.
Ma oggi quelli che hanno vinto e che hanno imposto la globalizzazione al mondo per fare profitti, sfruttando il più basso costo del lavoro dell’Est del mondo, ritornano nei fortini nazionali e sparano contro i nemici asiatici, perché sanno che in campo aperto la battaglia è persa. Come fanno, dunque, certi commentatori a dire che in fondo siamo tutti sulla stessa barca e che oggi non esistono più differenze di classe e quindi di interessi? Perfino Elon Musk è preoccupato delle possibili conseguenze dell’applicazione brutale dei dazi sui destini delle sue imprese. E per questo tira fuori la matita del premio Nobel, Milton Friedman, uno dei massimi nemici del protezionismo. Lo hanno capito anche i big della grande finanza di Wall Street, che in questi giorni cercano di far rinsavire il presidente che hanno votato. La grande finanza è preoccupata da una situazione che può sfuggirle di mano. Non è stata un caso isolato la dichiarazione di Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, società di investimento finanziario tra le più potenti del mondo. I fondi sono preoccupati per gli effetti dei dazi sui titoli delle società che costituiscono i portafogli dei fondi di miliardi di clienti sparsi in tutto l’Occidente, e per una possibile concomitante crescita di potere dei bitcoin. Gli effetti della guerra sono infatti imprevedibili e incontrollabili, come vediamo per esempio dalla flessione di queste ore dei titoli delle società che producono armi, e che erano state premiate, fino a questo momento, dall’aria di guerra. Pochi lo hanno notato, ma a essere colpite, dalle ultime flessioni di Borsa, sono state anche le società europee della difesa (e non quelle americane). Nelle montagne russe, le azioni della tedesca Rheinmetall sono scese fin del 27%. Quelle di Leonardo del 13%. Un altro chiaro capitolo della guerra dell’America di Trump contro l’Europa.
Tra chi ci sta guadagnando (oltre quelli che aspettano di rivendere al miglior prezzo i titoli svalutati), i maligni mettono anche lo stesso Trump come tycoon, con altri componenti della sua famiglia. Trump è un uomo d’affari. Una volta ha detto: “Gli accordi sono la mia forma d’arte”. Mentre lancia la guerra dei dazi, l’affarista tornato alla Casa Bianca ha già incassato vari affari con le aziende con cui ha avuto contenziosi legali (Amazon, Facebook, ecc.). I suoi vecchi avversari, e ora sostenitori, come i capi delle big tech, secondo il “Wall Street Journal” avrebbero versato circa ottanta milioni di dollari alla famiglia Trump e alla biblioteca presidenziale che il tycoon spera di costruire. E questo solo per gli accordi e le iniziative commerciali, senza contare i milioni donati per la sua inaugurazione o le attività con le criptovalute.
Un altro personaggio da tenere presente, in questo grande scenario della confusione, è J.D. Vance, un bitcoiner, un uomo che detiene tra centomila e duecentocinquantamila dollari in Btc, che ora è a pieno titolo rappresentante degli Stati Uniti. Tutto il mondo dei bitcoin ha brindato quando Vance è stato scelto da Trump, e ci sono due miliardari che hanno già dato il loro contributo personale alla sua campagna di rielezione al Senato: si tratta di Brian Armstrong e Fred Ehrsam, i cofondatori dell’exchange di criptovalute Coinbase, dove Vance ha dichiarato di detenere i suoi bitcoin. Siamo molto oltre l’antica definizione di “comitato d’affari della borghesia”. Oltre ai bitcoin, dovremmo per esempio cercare di capire che cosa stanno organizzando in Europa gli Hedge Funds, i fondi speculativi puri molto vicini all’amministrazione Trump.
Si può fare qualcosa, in questa situazione, o siamo costretti a lasciare spazio solo alla rassegnazione? La risposta è ovviamente complessa, ma si potrebbe cominciare con l’indicare degli spunti da seguire, come ha già cominciato a fare su “terzogiornale” Michele Mezza a proposito dell’opposizione di sinistra (vedi qui). Dal canto loro, i sindacati italiani dovrebbero ripartire, oltre che dal rilancio della contrattazione, soprattutto nelle aziende che saranno più esposte ai dazi, anche da possibili legami con le lotte di altri Paesi nella fabbrica mondo.
Intanto l’Europa, oltre a parlare di generico confronto e di contromisure equilibrate per arginare Trump, dovrebbe cominciare ad attivare meccanismi di controllo contro la speculazione finanziaria e lo strapotere della finanza sull’economia. Si dovrebbe riattivare un ruolo nuovo degli Stati nazionali che riprendano a difendere (federati con gli altri) i veri interessi comuni dei cittadini europei (e su questo abbiamo primi positivi accenni, come nel caso del fisco per le multinazionali). Dovremmo avere anche il coraggio di ripensare la dipendenza assoluta dall’America nel campo dei servizi di comunicazione (far nascere un Internet europeo?). Questa però non è certo la sede per stilare un “che fare” all’altezza della guerra commerciale in corso. Le piazze della protesta sono importanti, ci servono tutte, ed è un bene che si stiano moltiplicando. Servono però anche spunti per un ripensamento complessivo non solo della politica, ma anche della finanza e del risparmio gestito, in un momento in cui i termini “sostenibilità”, “futuro di pace”, “finanza etica” sono stati cancellati da tutte le agende politiche.