
Sarà anche vero, come dice il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, Antonio Tajani, che a Bruxelles i partiti che aderiscono al gruppo europarlamentare dei Patrioti “sono fuori da ogni gioco politico”, ma la Lega, che ne fa parte, a Roma un suo peso ancora ce l’ha; e se Matteo Salvini confida al primo quotidiano italiano che il piano di riarmo europeo annunciato da Ursula von der Leyen è “nato morto”, un qualche effetto politico lo determina. Alla vigilia del congresso del suo partito, in programma nel primo fine settimana di aprile a Firenze, il segretario leghista ha scelto di accentuare la sua caratterizzazione politica scommettendo sulla finestra di opportunità rappresentata dal dialogo fra Washington e Mosca sull’Ucraina. Si presenta così, da un lato, come il più entusiasta e fedele sostenitore delle mosse del presidente Trump e del suo vice J.D. Vance; dall’altro, giudicando “sacrosanto” il rifiuto, rivelato da un sondaggio, da parte del 94% degli italiani all’invio di truppe in Ucraina, si propone come “uomo della pace” (in Europa orientale, perché invece sulla carneficina in Palestina i partiti del governo Meloni fanno da sempre a gara per accaparrarsi la palma del più allineato con Israele). E addirittura getta l’amo a elettorati trasversali quando, lanciando le proposte leghiste sulla sanità, critica Bruxelles quasi da sinistra, spiegando che anziché riarmare “l’Europa ci dovrebbe permettere di fare debito sano italiano per formare i medici e gli infermieri”.
Sarebbe superficiale, nel leggere le mosse di Salvini, limitarsi a ricordare gli storici rapporti fra la Lega e Russia unita, il partito di Vladimir Putin – rapporti finiti temporaneamente nel congelatore con l’avanzare della guerra in Ucraina e il radicalizzarsi della posizione europea di contrapposizione con la Russia. Certamente un peso, per la componente tradizionalmente nordista della maggioranza, ce l’ha la sofferenza delle aree più industrializzate del Paese, le più legate all’apparato produttivo della Germania colpita dalla recessione, a causa della guerra, delle sanzioni e del conseguente boom dei costi energetici. Lui stesso lo rivendica nel suo colloquio con il “Corriere della sera”: “Io penso alla meccanica, penso al vino che in passato fu escluso dai dazi, alla farmaceutica, all’eccellenza agroalimentare e temo che le idee confuse che Bruxelles ha sulla pace, le abbia anche riguardo ai rapporti commerciali”. Ma è chiaro che il lavoro di Salvini mira a rilanciare la competizione con gli alleati e a sfruttare le difficoltà oggettive di Meloni, costretta a barcamenarsi fra la commissione von der Leyen, che è espressione anche del governo italiano (con il vicepresidente Raffaele Fitto), e la sintonia naturale con la destra radicale e ultrapopulista al potere negli Stati Uniti.
Facciamo un passo indietro necessario: la “coalizione di centrodestra” è una definizione molto brillante sul piano del marketing, e non troppo veritiera su quello dell’analisi politica (di “centro” se n’è visto sempre pochino, ancor meno se ne vede oggi nel destra-centro a guida Meloni), che risale alla creatività comunicativa di Silvio Berlusconi. L’aspetto interessante è che l’alleanza ha resistito a molti scossoni sul piano degli equilibri interni, dal dominio berlusconiano indiscusso all’ascesa e (quasi) caduta dell’astro di Salvini, fino all’attuale egemonia meloniana: le forze che la compongono di fatto stanno insieme dal 1994, con rari momenti di divaricazione, il più denso di conseguenze risale alla rottura tra il fondatore di Forza Italia e quello della Lega (Nord), Umberto Bossi, rottura che fu determinante per il successo di Romano Prodi nel 1996. Analizzando quindi le recenti tensioni fra la Lega e gli alleati di governo, è opportuno mantenere una certa cautela, evitando di sovrastimare i possibili effetti della concorrenza interna e del recente attivismo dei leghisti che pure ha contribuito a rialzare la temperatura nella maggioranza parlamentare (da ultimo, anche sul decreto che mette un freno alle cittadinanze facili dei lontani discendenti degli emigranti italiani). È pur vero che una certa pressione per un cambio dello schema di gioco in direzione di una maggioranza più “draghiana”, per così dire, deve averla avvertita la stessa Meloni, se è vero che la presidente del Consiglio, di fronte alla non troppo ostile platea del congresso di Azione, si è sentita in dovere di precisare che non ha intenzione di sostituire gli alleati di governo.
Il congresso leghista in sé non promette fuochi d’artificio. Salvini è meno onnipotente di un tempo nel partito (“terzogiornale) ne ha parlato qui), e i mugugni “nordisti” che premono per il ritorno alla tradizione federalista hanno guadagnato terreno. L’altro tema dolente è l’autonomia regionale differenziata, azzoppata ma non cancellata dalla Consulta (qui un riassunto ).
Salvini non porta responsabilità per le difficoltà incontrate dalla legge, sulla quale comunque il ministro Roberto Calderoli è pronto a tornare alla carica con le norme sui Livelli essenziali delle prestazioni, per provare a ottemperare alle prescrizioni dei giudici costituzionali, e forse anche a superarle in qualche modo. Questo argomento, più che nel Carroccio, alimenta tensioni nella maggioranza, con qualche leghista che accusa gli alleati di uno strisciante boicottaggio. Nella Lega, in ogni caso, non si profila per ora nessun golpe interno: Salvini resterà in sella, sarà probabilmente rinviata la questione di un ruolo da vicesegretario per il generale-eurodeputato Roberto Vannacci, sempre con un piede dentro e uno fuori dal partito; le assise fiorentine discuteranno solo sulla base di documenti tematici, anche se il leader giura di essere pronto a cedere generosamente il passo: “Ho messo a disposizione il mio mandato e se qualcuno vuole fare il segretario della Lega sarò il primo firmatario della mozione a suo sostegno”. Nel frattempo, la figura più carismatica nel partito, Luca Zaia, che potrebbe forse ambire a sostituirlo, è in attesa di sapere se la Corte costituzionale boccerà la legge per il terzo mandato promossa dal presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, contro cui ha fatto ricorso il governo. Se vince De Luca, anche Zaia punterà a ricandidarsi alla presidenza del Veneto, Fratelli d’Italia permettendo. Tutto fermo, quindi? Nei corridoi parlamentari gli esponenti di Fratelli d’Italia ostentano previsioni ottimistiche sul dopo-congresso della Lega, che dovrebbe calmare i bollenti spiriti di Salvini e dei suoi nei confronti degli alleati. Tesi ragionevole, ma resa meno convincente dagli esiti di un recente sondaggio di Nando Pagnoncelli che ha trovato ampio spazio sui giornali La rilevazione testimonia un calo di Fratelli d’Italia (che resta irraggiungibile dagli alleati), ma anche la crescita della Lega, accreditata quasi di un punto percentuale in più rispetto all’ultima misurazione: per la precisione lo 0,9%, grazie al quale raggiunge quota 9%, tornando a superare Forza Italia, che scende all’8,4%. A ben vedere, quindi, Salvini potrebbe avere ottime ragioni per continuare anche dopo il congresso di Firenze sulla strada dei distinguo, delle polemiche e dei rilanci continui che, pur senza apparentemente metterne a rischio la prosecuzione, rendono procellosa la navigazione del governo Meloni