
Come accadde ad Al Capone, potremmo dire. Come il gangster di Chicago fu, alla fine, incastrato per un reato fiscale, così i giganti della Silicon Valley, sono oggi nel mirino dell’Agenzia delle entrate italiana. E probabilmente non solo loro. Qualche giorno fa, nell’assoluta indifferenza dei pur logorroici commentatori di cose tecnologiche, la Reuters batte la notizia: il fisco italiano chiede più di un miliardo di euro come arretrati solo per gli esercizi 2016-17 – a Facebook, per la gran parte della cifra, e inoltre a Linkedin e a X.
Sembra il solito contenzioso sulle tasse non pagate, che si perderà in un interminabile braccio di ferro giudiziario. Invece questa volta, a far tremare i giganti, sono le motivazioni della richiesta. Nel mirino dell’amministrazione del nostro Paese sono i dati, quella materia che una retorica già logora definisce il petrolio della nuova era. E come tale gli esperti dell’Agenzia delle entrate (che, ricordiamolo, da qualche mese si avvale per i suoi accertamenti di risorse di intelligenza artificiale) hanno deciso di trattarli. Infatti – al netto di ogni disquisizione teorica sui dati delle piattaforme digitali, da intendere o meno come “bene comune” – il fisco italiano si limita a considerarli per quello che gli stessi dirigenti delle grandi compagnie digitali sbandierano, cioè la fonte dei propri ricavi, tanto che i dati sulle iscrizioni alle diverse piattaforme vengono messi a bilancio, ed entrano nel patrimonio aziendale. Allora – sostiene il fisco italiano – bisogna pagare l’Iva su un tale asset economico.
Facile immaginare un certo sgomento, subito precipitato in rabbia pura e semplice, da parte degli interessati. Perché il ragionamento dei funzionari italiani sembra non fare una grinza. Tanto più che si appoggia su una sentenza del Consiglio di Stato, che ha dato ragione all’Autorità dell’antitrust nazionale, che nel 2018 inibiva proprio a Facebook di usare, nelle sue campagne promozionali, la dizione “servizio gratuito”. Quanto offre il grande social di proprietà di Mark Zuckerberg non è – si argomentava – a titolo gratuito, perché trova un corrispettivo proprio nell’acquisizione dei dati identitari dei milioni di iscritti.
In virtù di questa banale constatazione, si apre una voragine nell’economia digitale, completamente basata proprio sulla privatizzazione e sullo sfruttamento dei dati per rendere efficace sia la pubblicità sia altre forme di pressione psicologica altamente personalizzate. Più del petrolio, big data è una pietra filosofale che tramuta in oro tutto quello che tocca, come i bilanci dei grandi gruppi multinazionali ci hanno mostrato in questi anni.
Ma il gioco ora arriva a un redde rationem, e, come spesso accade nello stesso capitalismo finanziario, anche una piccola buccia di banana può far scivolare un grande potere. In questa fase, sono in discussione solo i dati delle iscrizioni, ossia quelle poche informazioni sulla mia identità che deposito nei server delle piattaforme a cui mi iscrivo. Subito dopo, toccherà anche ai ben più rilevanti e produttivi dati sui miei comportamenti o i miei gusti, o ancora sulle mie ambizioni. È questo flusso che permette a Google o ad Amazon o a Facebook di profilarmi, usando o vendendo le mie abitudini più intime, fino a rendere possibili vere e proprie interferenze nelle mie tendenze politiche o sentimentali. Si scoperchia così il vaso di Pandora che proteggeva quel circuito economico, e che sta smantellando ogni certezza sia istituzionale sia culturale, consegnando ai padroni di questa potenza di calcolo la capacità di ridisegnare bisogni e desideri di miliardi di utenti.
Costringere questi gruppi a rendere esplicita e trasparente l’entità dei dati che utilizzano per le loro attività – come avverrebbe se la richiesta del fisco italiano fosse sancita ancora una volta dalla magistratura, e diventasse poi strategia europea – muterebbe radicalmente le ragioni di scambio sia fra Stati e proprietà privata della tecnologia, sia fra piattaforme e singoli utenti. Si aprirebbe una nuova stagione negoziale, in cui i giganti dovrebbero trattare con i nani, riconfigurando le condizioni gestionali di quel sottile meccanismo che ora sta riorganizzando i grandi poteri geopolitici, a partire dalla massima superpotenza americana. Ovviamente, questa valanga coinvolgerebbe anche le imprese nazionali, così come i circuiti commerciali o le testate giornalistiche, o anche le entità professionali, oggi tutti basati sulla relazione diretta con ogni singolo cliente, la cui identità è riconosciuta e usata impunemente dai service provider. In questa nuova dinamica, dovrebbe ricollocarsi la politica, in particolare quella di sinistra, oggi del tutto orfana di qualsiasi momento conflittuale che legittimi la rappresentanza di ceti e interessi sociali.
Nell’immediato, non è difficile immaginare quanto questa nuova azione – che colpisce direttamente lo scrigno digitale, così caro al nuovo presidente statunitense – potrebbe attizzare, nel contesto della contrapposizione fra le due sponde dell’Atlantico, ipotizzando un’ulteriore reazione sui dazi rispetto all’attacco sui dati. Ma anche su questo terreno un’eventuale affermazione dell’iniziativa del fisco italiano non farebbe che aprire la strada a un inevitabile compromesso negoziale.