
Il rischio più grande è l’assuefazione, quel fenomeno che secondo i medici si verifica nell’organismo per effetto della somministrazione continua di un farmaco per cui viene a diminuire o annullarsi la sua efficacia. Qui invece utilizziamo il termine come abitudine, mancanza di sorpresa e soprattutto rassegnazione. Le cose vanno così, che possiamo farci? È questa la prima reazione alla pubblicazione degli ultimi dati Istat sui salari e i redditi degli italiani, che non ci sorprendono più, ma sono pesantissimi.
Nel 2024 il 23,1% della popolazione è risultato a rischio di povertà o esclusione sociale, con un aumento del 22,8% rispetto all’anno precedente. Che cosa vogliono dire queste cifre? La risposta è semplice: tutte le persone di cui si parla, gli uomini e le donne che vengono rappresentati come percentuali statistiche, si trovano o a rischio di povertà, o già in grave deprivazione materiale e sociale, oppure sono lavoratrici e lavoratori poveri, ovvero – come dicono gli esperti – “soggetti a bassa intensità di lavoro”. Il rapporto dell’Istituto centrale di statistica, che non sembra concedere nulla alle pressioni propagandistiche del governo Meloni, rivela anche un altro dato molto importante su cui i politici (soprattutto quelli che si dichiarano di sinistra) dovrebbero cominciare a riflettere seriamente: nel corso del 2023 (ultimi dati disponibili), il reddito annuale medio delle famiglie (37.511 euro) è aumentato in termini nominali (+4,2%), ma si è ridotto in termini reali (-1,6%). La differenza tra la propaganda e la realtà è evidente anche dalle fredde statistiche.
L’Istat ci dice, per esempio, che il mercato del lavoro più felice dall’epoca di Garibaldi (quando ancora non esistevano gli istituti di statistica visto che la Società italiana di statistica venne fondata solo nel 1939), è un mercato di braccia povere. Nel 2023, i lavoratori a basso reddito (che hanno lavorato almeno un mese nell’anno e hanno percepito un reddito netto da lavoro inferiore al 60% della mediana della distribuzione individuale del reddito netto da lavoro relativa al 2023) sono pari al 21% del totale, un valore pressoché invariato rispetto all’anno precedente.
Aumentano i lavoratori poveri, aumenta l’insicurezza e aumentano anche le diseguaglianze interne alle classi lavoratrici. Il rischio di essere un lavoratore a basso reddito è molto più alto per le donne rispetto agli uomini (26,6% contro 16,8%), per gli occupati appartenenti alle classi di età più giovani (29,5% per i lavoratori con meno di 35 anni contro un valore minimo pari al 17,7% per quelli nella classe 55-64), per gli stranieri rispetto agli italiani (35,2% contro 19,3%). La condizione di basso reddito si associa poi anche ai bassi livelli di istruzione, passando dal 40,7% per gli occupati con istruzione primaria al 12,3% per quelli con istruzione terziaria.
Dati che “gridano vendetta”, ha commentato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, perché “legati sia al livello di precarietà sia al fatto che il governo continua a non andare a prendere i soldi dove sono. Si assuma tutte le sue responsabilità e la smetta di raccontare un mondo che non esiste”. Anche Massimiliano Dona, presidente dell’Unione nazionale consumatori, ha parlato di “vergogna”, perché “avere quasi un quarto della popolazione a rischio povertà o esclusione sociale non è degno di un Paese civile. Il fatto, poi, che il dato sia addirittura in peggioramento rispetto al 2023, attesta come le politiche del governo Meloni abbiano fallito sul fronte del contrasto alla povertà, come era già stato attestato una decina di giorni fa, sempre dall’Istat, con l’aumento dell’indice di Gini”.
I dati Istat confermano anche quello che avevano già detto Ocse ed Eurostat, che hanno posto l’Italia alla coda delle classifiche sugli aumenti salariali. L’Italia è quella che fa peggio. Mentre negli altri Paesi europei le retribuzioni crescono, anche se lentamente, in Italia si è registrata addirittura una flessione. E su quest’analisi concordano ormai un po’ tutti, fatta eccezione per i ministri del governo Meloni. “I bassi salari sono la spia di un malessere profondo dell’economia – spiega Tommaso Monacelli, ordinario di Macroeconomia all’università Bocconi di Milano – malessere che deriva da una crescita anemica della produttività totale dei fattori. I salari fermi sono, a mio avviso, la più grande ferita nel modello di specializzazione produttiva dell’Italia, basata sulle piccole e medie imprese. Con un impatto inevitabile anche sulla demografia”.
Gli ultimi dati Istat dovrebbero quindi far scattare l’allarme, e dovrebbero imporci una discussione sul “che fare”. Sono intanto la conferma che l’Italia rischia di indebolirsi più di altri Paesi europei, nel generale indebolimento dell’Europa. Che cosa succederà tra poco all’economia italiana con l’applicazione dei dazi di Trump? Che cosa succederà a tutto il grande settore dell’indotto e della componentistica italiana legata a doppio filo all’industria tedesca? È a rischio perfino uno dei settori industriali (forse l’unico) che ancora vanta un certo grado di competitività in Europa, ovvero l’industria della difesa, o, come direbbero i pacifisti, l’industria delle armi e della guerra. Anche questo settore – su cui stanno puntando governi e scommettitori finanziari – potrebbe essere travolto dal nuovo colonialismo finanziario americano.
Sarebbe qui troppo lungo rifare l’elenco dei primati negativi italiani. Siamo il Paese che fa meno figli, quello da dove emigrano di più i ragazzi che hanno studiato (il primato della cosiddetta “fuga dei cervelli”). Nello stesso tempo, l’Italia, grazie alle riforme degli anni scorsi, è il Paese dove si va in pensione più tardi (67 anni, contro una media europea di 64 anni). E siamo anche il Paese dove cresce di più la diseguaglianza sociale, nonostante il ridotto numero di ricchissimi. Il processo di concentrazione della ricchezza è uno dei dati forti, sempre in crescita nel mondo, anche da noi. Interessante notare, in proposito, che la diseguaglianza sta crescendo anche in altri Paesi europei, che prima erano invece il fiore all’occhiello del modello virtuoso del vecchio continente. Nei Paesi nordici crescono infatti le diseguaglianze, dove si è deciso di premiare i ricchi, con la diminuzione delle tasse sui redditi più alti. Tra i tanti dati da assuefazione, ci sono infatti anche novità. Perché, per esempio, la Svezia risulta oggi al vertice della diseguaglianza? Secondo Lisa Pelling, direttrice del centro studi Arena Idé di Stoccolma, il sistema fiscale è la ragione più importante per cui la Svezia va controcorrente. “Negli ultimi decenni abbiamo abolito una serie di tasse sulla ricchezza – spiega Pellingws –, in Svezia, al momento, non c’è alcuna tassa sul patrimonio. Non c’è nemmeno un’imposta sull’eredità, sulle donazioni e sulle proprietà”.
Scattano così vari campanelli d’allarme, che dovrebbero scuoterci dal torpore dell’assuefazione. Il “che fare” è difficile da fare, quasi un’utopia, ma sarebbe possibile. È questione di scelte politiche. Spetta al sindacato rilanciare una contrattazione fortissima contro le imprese che continuano a fare profitti e a destinare la ricchezza alla finanza, per invertire il trend del crollo delle retribuzioni. E spetta alla politica, in particolare a tutti coloro che si riconoscono ancora in un’idea di giustizia sociale (non ci spingiamo a dire di socialismo), ripartire dai fondamentali rompendo vari tabù. A cominciare dal fisco, visto che ormai è passato il messaggio più velenoso del capitalismo (ex) liberista: le tasse come male assoluto. Ma le tasse di chi? Il reddito di cittadinanza era sbagliato? La destra lo ha cancellato, ma senza introdurre alcuna misura alternativa, facendo così seguito alla famosa battuta di Cetto La Qualunque nei film di Albanese.