
“In America e in Israele, quando un forte leader di destra vince un’elezione, il deep State di sinistra arma il sistema giudiziario per contrastare la volontà del popolo”. È la seconda volta in meno di un mese che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, usa l’espressione “Stato profondo”. Lo fa principalmente per scagliarsi contro il sistema giudiziario, giudicato “di sinistra” quando indaga sulla sua condotta e su quella dei suoi assistenti. Per Bibi anche i mezzi di comunicazione, in realtà per la stragrande maggioranza molto poco critici nei confronti del suo governo, farebbero parte di questo piano messo in atto per spodestarlo.
Solo, non si capisce bene chi dovrebbe rappresentare quella “sinistra” di cui parla. Forse il capo dello Shin Bet, Ronen Bar? O l’ex ministro della difesa Yoav Gallant (su cui pure pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra)? O l’ex capo di stato maggiore, Herzl Halevi, capro espiatorio dei fallimenti dell’intelligence che non hanno evitato l’attacco di Hamas del 7 ottobre? Oppure la procuratrice generale Gali Baharav-Miara, che indaga sul primo ministro, o ancora il giudice della Corte suprema Isaac Amit, che ha congelato il licenziamento di Ronen Bar? Sono tutte persone che Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra sono riusciti a cacciare dalle proprie posizioni, o che si trovano nel mirino della coalizione governativa. Il presidente, Isaac Herzog, si è affrettato a rispondere alle allusioni di Netanyahu, difendendo ciò che resta del principio di separazione dei poteri: “Il sistema giudiziario forte e indipendente di Israele è una risorsa per la nostra democrazia”, ha scritto in un post su X, “e il presidente di Israele ne è molto orgoglioso”.
La decisione di rompere il cessate il fuoco e riprendere con violenza gli attacchi a Gaza ha avuto l’esito sperato di ricompattare una maggioranza governativa, che oggi si presenta forte più che mai. Ma questa volta i piani di Israele sono chiari e prevedono mesi e mesi di guerra e un’occupazione permanente della Striscia, con una presenza militare numerosa non solo in fase di attacco ma anche in seguito all’agognata “vittoria”, ossia alla cacciata di Hamas (obiettivo questo che pare ancora inverosimile). L’esercito, secondo i piani del nuovo capo di stato maggiore Eyal Zamir, dovrà rimanere presente a Gaza per amministrarla, e per gestire l’ingresso e la distribuzione degli aiuti. Non prima, però, di aver spinto tutta la popolazione palestinese, più di due milioni di persone, in una piccola area a loro riservata lungo la costa, da cui non potranno uscire.
Il progetto non tiene conto della preoccupazione, della stanchezza e del malcontento che circolano anche all’interno dell’esercito. La decisione di mantenere più fronti aperti, dal Libano alla Siria, fino alla Cisgiordania e Gaza, passando magari domani (perché no?) per l’Iran, richiede un sacrificio sia ai riservisti sia all’esercito regolare in termini di tempi e rischi. Il quotidiano israeliano “Haaretz” riporta la questione come una possibile bomba nelle mani dei ministri di estrema destra, che tentano di oscurare il malcontento e addirittura la possibilità che i riservisti non si presentino in servizio. I sondaggi pubblicati a metà mese dimostravano che più della metà della popolazione israeliana sosteneva il proseguimento del cessate il fuoco e gli accordi con Hamas per liberare gli ostaggi. Martedì 25 marzo, si sono tenute proteste senza precedenti fuori dalla Knesset, mentre il parlamento votava l’approvazione del bilancio. Ma se prima della ripresa della guerra Netanyahu temeva addirittura che il suo governo potesse rischiare di cadere, ieri il bilancio è stato approvato senza problemi.
Lo scandalo detto Qatargate ha estremizzato le posizioni del primo ministro e velocizzato le mosse di sostituzione dei funzionari a lui più critici. Tra cui coloro che lo stanno indagando, come Bar. Le investigazioni seguono la pista di denaro che, da Doha, giunge direttamente nell’ufficio di Netanyahu, fino ai suoi assistenti e collaboratori più stretti. Tel Aviv non ha ufficialmente relazioni diplomatiche con il Qatar, ma nella pratica alcuni dei più alti funzionari governativi hanno ricevuto denaro in cambio di azioni che potessero aiutare a migliorare l’immagine del Paese arabo. Spetta allo Shin Bet investigare su questioni del genere, portate alla luce solo da alcune indagini giornalistiche. Ma a Netanyahu la cosa non va a genio, e dunque ha incolpato Bar non solo di non aver previsto e fermato l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma anche di volerlo attaccare personalmente. Bar, dal canto suo, aveva già riconosciuto le proprie responsabilità, e annunciato che si sarebbe dimesso, ma non nei tempi convenienti a Netanyahu, e comunque non prima che il governo nominasse una commissione con lo scopo di indagare sui fallimenti politici, oltre che su quelli militari, che hanno portato al 7 ottobre.
Si tratta di una investigazione che la maggior parte della società israeliana sta attendendo da diciotto mesi, ma a cui il governo si oppone. Potrebbe portare alle conclusioni, già in parte raggiunte dall’inchiesta militare, che i governi Netanyahu, insieme agli altri degli ultimi anni, hanno agito dando per scontato che Hamas non avrebbe mai attaccato. Per farlo, avrebbero spinto proprio il Qatar a far giungere fiumi di soldi al gruppo islamista, nella speranza che i suoi membri acquisissero un’agiatezza da non voler rischiare di perdere con un attacco diretto a Israele.
C’è poi la questione della leva obbligatoria per gli ultra-ortodossi, che seppure preoccupa il premier, non ha influito, alla fine, sull’approvazione del bilancio. Gli Haredim non intendono rischiare di far cadere un primo ministro che si dimostra generoso nei confronti delle proprie istanze, e che non ha escluso una legge sull’esenzione dal servizio militare per i religiosi (già prevista fino alla decisione della Corte suprema, lo scorso anno). Questa possibilità aumenta però il malcontento all’interno dell’esercito.
Intanto, il primo ministro attende di poter licenziare Bar – cosa che verosimilmente accadrà presto – per potersi poi concentrare sulla procuratrice generale Gali Baharav-Miara, che gli sta con il fiato sul collo e sul giudice della Corte suprema Isaac Amit, arrivando così a completare il piano di controllo sulle più importanti istituzioni statali.