
Ci sono parole che, col tempo, assumono un significato completamente nuovo, e che vanno a volte a soppiantare termini utilizzati in precedenza. È il caso di “rigenerazione urbana” che lentamente è andato sostituendo parole e concetti quali “riuso”, “riqualificazione”, “recupero”, ampliandosi progressivamente, fin quasi a inglobare l’intero ambito dell’urbanistica tradizionale. Oggi se ne parla ovunque. Dopo le vicende milanesi, il tema è diventato di attualità politica, non più solo una questione tecnica, ritenuta a lungo appannaggio principalmente di urbanisti, architetti e sociologi. Che cos’è la rigenerazione urbana? La definizione non è facile, data appunto l’espansione quasi ameboidale del concetto: i tentativi di definirla risultano per lo più inadeguati, sfocati, come recita un bel libro recente di Arturo Lanzani sul tema (Rigenerazione urbana e territoriale al plurale. Itinerari in un campo sfocato, edito da Angeli).
La rigenerazione presenta, fin dai suoi albori, due tratti contrastanti: da una parte, è intesa come recupero di patrimonio, conservazione e restauro; dall’altra, guarda a una tradizione anglosassone di renewal in chiave sociale, inteso come insieme di interventi mirati a migliorare “i valori economici, sociali e culturali di un determinato territorio”, secondo quanto recita per esempio la legge regionale della Puglia del 2008, che fa suo lo spirito di questa seconda interpretazione. Insomma, fin dall’inizio sono presenti due corni della questione: da un lato c’è l’intervento conservativo-rigenerativo sul patrimonio costruito esistente, dall’altro il benessere di chi vive sui territori interessati dai processi. Come dire: non c’è vera rigenerazione in assenza di un miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti, e le ristrutturazioni devono essere bilanciate da un lascito di servizi e strutture pubbliche.
Ma chi la fa la rigenerazione? Con quali mezzi economici? Con quali conseguenze? A fronte di un progressivo languire della iniziativa pubblica, l’iniziativa è passata ai privati, con il crescente pericolo che, vista la debolezza dell’azione amministrativa e di governo, il testimone dell’intervento nelle città sia trasferito completamente all’iniziativa privata. E questo è spesso avvenuto, soprattutto in quei Paesi europei in cui più debole è la voce delle amministrazioni locali e meno attenta la normazione dei processi da parte governativa. Inutile dire che, tristemente, il caso italiano ricade in quest’ultima casistica: la vicenda milanese, di cui abbiamo parlato su queste pagine (vedi qui), sintetizza cosa accade quando la rigenerazione procede per deroghe, ristrutturazioni ambigue e fuor di misura, patteggiamenti più o meno palesi tra capitali alla ricerca di facili valorizzazioni e amministrazioni protese ad attrarre investimenti in qualsiasi modo e a qualunque costo.
I risultati a Milano si sono visti, e il chiudere uno o tutti e due gli occhi su “rigenerazioni” che erano vere e proprie speculazioni edilizie ha avuto il bel risultato di espellere i ceti medio-bassi dalle zone centrali, portando a impennate brusche dei valori immobiliari. A Milano si sono pagati oneri di urbanizzazione ridicoli rispetto a Parigi o a Berlino (la giornalista Lucia Tozzi valuta in oltre cento milioni di euro il danno erariale), con il risultato di attirare i grandi fondi di investimento internazionali, ma a un prezzo socio-economico pressoché insostenibile. In questo modo, nella distratta noncuranza della politica nazionale, quasi la metà degli investimenti immobiliari in Italia si è concentrata a Milano, provocando uno squilibrio crescente dei settori produttivi.
La “rigenerazione” ha cambiato il volto della città e ne ha mutato la stratificazione sociale, senza un piano e senza un progetto. Lasciata agli “spiriti animali” del capitalismo estrattivo e in balia dei processi di finanziarizzazione della rendita, mentre declinava sotto il profilo della produzione nei settori avanzati e del lavoro, la metropoli lombarda ha conosciuto una sorta di “ipergentrificazione” che ha centrifugato verso le periferie tutti coloro che non erano in grado di sostenere l’aumento dei prezzi e la trasformazione del tessuto sociale, lasciando sul terreno solo una serie di edifici di lusso in cui si insediano le nuove élite. Altrove – basterebbe pensare alla Germania o ai Paesi Bassi – la rigenerazione è stata uno strumento a volte utilizzato con intelligenza, messo prevalentemente sotto il controllo della mano pubblica, e ha sortito risultati decisamente differenti. Non che siano mancati momenti speculativi, ma quanto meno si sono tentati correttivi, anche dopo reazioni e lotte da parte della popolazione, da Madrid a Lisbona e a Berlino.
Che fare allora? Cancellare dal vocabolario il termine “rigenerazione urbana” e condannarlo a una damnatio memoriae? Oppure recuperare l’altra tradizione cui si accennava, che insiste sul fatto che le città si trasformano e si migliorano con gli abitanti, che renewal non è necessariamente removal. Personalmente, ritengo che questa sia una via. Dimenticare Milano e pensare i processi di rigenerazione come un momento di coinvolgimento delle realtà locali, dei comitati degli abitanti, delle associazioni, non ridurli a una trattativa sempre perdente tra amministrazioni e immobiliaristi. Pensare la potenza dei legami associativi locali e fare convergere più attori possibili nella trasformazione e nel recupero di parti importanti di città. Ma, perché questo avvenga, occorre una svolta, occorre segnare una discontinuità netta rispetto alla gestione neoliberale della città; è necessario un rinnovamento delle modalità di amministrazione, che non sia solo “governance” e partecipazionismo di facciata, ma che contempli un’apertura al sociale, la cessione verso il basso di quote di potere, una rimodulazione delle istituzioni e la fondazione di un sistema pattizio e dinamico tra istituzioni e realtà locali. Non sono utopie ma prassi sempre più indispensabili: solo così un’altra rigenerazione è possibile.