
Il cappio di Erdogan si stringe sempre più intorno al collo degli oppositori politici. L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, è la punta dell’iceberg di una lotta senza quartiere del presidente contro tutti coloro che minano il suo potere, presente o futuro. Imamoglu ha infatti dimostrato più volte di essere capace di unire le opposizioni e rappresentare un’alternativa reale all’egemonia di Erdogan. Lo ha dimostrato nelle elezioni a sindaco di Istanbul del 2019, quando il presidente turco provò a sovvertire il risultato, facendo invalidare il voto dalla commissione elettorale. Il leader dell’Akp, che di fatto governa la Turchia dal 2003, ha cominciato la sua carriera politica proprio da Istanbul, diventando sindaco della città più importante del Paese, nel 1994. E sa bene che Imamoglu ha le carte in regola per riuscire a percorrere la stessa via. Cosa di cui ha dato nuovamente prova nel 2024, quando è stato rieletto sindaco con il Partito popolare repubblicano (Chp). Nelle elezioni dello scorso anno, l’Akp è precipitato ai minimi storici, e Imamoglu è stato internazionalmente proclamato l’avversario diretto di Erdogan, l’unico eventualmente in grado di sconfiggerlo alle elezioni del 2028, mettendo così fine a una leadership che dura da ventidue anni.
Prima dell’arresto, il 19 marzo, erano stati tanti e diversi i tentativi di escluderlo dalla vita politica. A parte le numerose indagini e i processi, anche l’annullamento della laurea in Economia conseguita presso l’Università di Istanbul (in Turchia per candidarsi alla presidenza è necessario possedere un titolo universitario). L’enorme schieramento di poliziotti inviati ad arrestare l’uomo politico potrebbe rappresentare la pietra tombale della sua carriera e della sua vita da uomo libero. “Qualcuno vuole usurpare la volontà popolare”, ha dichiarato Imamoglu. “Mi affido al mio popolo. Continuerò a lottare contro quella persona e contro coloro che collaborano con lui”.
Il partito kemalista Chp ha conquistato, nel 2024, diverse importanti città, ma rimane debole nelle zone rurali, dove l’Akp continua a registrare un grande consenso. Le accuse mosse contro Imamoglu sono più o meno le stesse utilizzate contro tanti oppositori politici finiti in carcere: la corruzione e il sostegno alle organizzazioni terroristiche, al Pkk in particolare, il partito curdo fondato da Abdullah Öcalan, che di recente ha annunciato la fine della lotta armata e il suo scioglimento (vedi qui). Un processo, questo, che dovrebbe compiersi insieme all’evoluzione democratica delle istituzioni statali turche.
Qualche analista ha avanzato l’ipotesi che Erdogan fosse disposto a mostrarsi comprensivo con i curdi in cambio di un loro supporto al tentativo di modifica costituzionale, che permetterebbe al presidente di ricandidarsi nel 2028. Secondo questa lettura, il partito di opposizione curdo Dem potrebbe scegliere di votare a favore del cambiamento, garantendo sicurezza ai progetti del leader dell’Akp. Ma Erdogan si muove in direzione esattamente opposta a quella di qualsiasi possibile sviluppo democratico. Con Imamoglu ha fatto arrestare altre centocinquanta persone, oppositori, giornalisti, imprenditori, e i sindaci dei municipi di Beylikdüzü e Sisli. La criminalizzazione del Pkk continua a essere utilizzata allo scopo di mettere fuori gioco gli avversari. E allo stesso tempo Devlet Bahçeli, l’esponente governativo nazionalista di destra che ha aperto la strada al dialogo tra Ankara e il Pkk, propone di convocare l’assemblea del partito curdo in Turchia, dove il gruppo è ufficialmente illegale.
Utilizzare tutte le armi a disposizione per il proprio vantaggio personale, senza preoccuparsi della coerenza, è un tratto distintivo del regime di Erdogan. È quello che fa da molti anni. Soprattutto a partire dal presunto tentativo di colpo di Stato del 2016, servito al leader dell’Akp per consolidare il proprio potere, giustificando una serie di misure repressive, che hanno portato all’arresto di centinaia di migliaia di persone, a un numero enorme di licenziamenti, cittadini che ricoprivano ruoli di responsabilità all’interno delle istituzioni, sostituiti con nomi a lui fedeli. Fu anche l’occasione per accusare Fethullah Gülen di avere organizzato un complotto militare, mettendo così fuori gioco la sua organizzazione, che gli era stata utile fino a qualche tempo prima.
Da allora, senza tregua, oppositori, attivisti per i diritti, giornalisti, artisti e avvocati sono stati rinchiusi nelle prigioni per loro appositamente costruite. Il governo è talmente determinato a spezzare le reni di qualsiasi tipo di resistenza (e allo stesso tempo terrorizzato dalle capacità organizzative dei gruppi che difendono la democrazia), da perseguitare uomini e donne di tutte le età, anche anziani e malati, architettando modi sempre nuovi per isolarli dalle rispettive comunità politiche. Uno di questi modi è la tortura. Anche se le denunce delle vittime vengono spesso messe a tacere con la minaccia di reclusione a vita, diversi gruppi di avvocati, come l’Ufficio legale del popolo, sono riusciti a rintracciare i centri segreti di detenzione in cui scosse elettriche, affogamenti, pestaggi, stupri e violenze sessuali di vario genere vengono utilizzati per piegare lo spirito dei rivoluzionari.
Manifestazioni di protesta si sono tenute subito dopo gli arresti, a Istanbul e in altre città, nonostante il governo ne avesse vietato lo svolgimento. Imamoglu, attraverso i suoi avvocati, ha fatto appello alla magistratura, perché reagisca e non resti in silenzio. Ma il controllo tentacolare di Erdogan su enti e istituzioni non fa certo sperare in sviluppi positivi.