
“Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire”: può sembrare eccessivo scomodare l’immortale dialogo manzoniano fra il conte zio e il padre provinciale per descrivere l’atteggiamento del governo e della presidente del Consiglio Meloni sulla vicenda del generale torturatore libico Usama Nagim Almasri, catturato dalla Digos a gennaio su mandato della Corte penale internazionale (Cpi), e frettolosamente scarcerato e riaccompagnato in Libia con volo di Stato per decisione del governo, variamente motivata con cavilli formali ed esigenze di “sicurezza nazionale”. Di fatto, si tratta del caso nel quale, forse, la compagine governativa è apparsa più confusa, più a corto di argomenti per giustificare l’accaduto, più desiderosa di spargere una cortina fumogena sui fatti, più incapace di rilanciare parlando d’altro, come invece ha fatto, per esempio, con la consueta astuzia la stessa Meloni ieri, incendiando l’aula della Camera con la sua intemerata contro il Manifesto di Ventotene. Documento che, con l’Europa reale della governance brussellese, c’entra come l’ananas con la pizza, ma il guizzo creativo della leader del destra-centro si è rivelato utilissimo a spostare l’attenzione dalle crepe emerse nella sua coalizione (sul lato della Lega, in particolare) a proposito dell’atteggiamento europeo sul negoziato russo-statunitense e sul piano di riarmo annunciato dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
L’abilità di Meloni e dei suoi nell’orientare a proprio piacimento i temi del dibattito pubblico, del resto, “terzogiornale” l’aveva analizzata qui, fin dagli esordi del suo esecutivo, due anni e mezzo fa.
Sta di fatto che invece il caso Almasri resta un inciampo imbarazzante per l’esecutivo. La mozione di sfiducia individuale indirizzata dalle opposizioni al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è stata nuovamente rinviata alla Camera: la discussione si è aperta il 25 febbraio scorso, il voto (che non rischia di produrre sconquassi, ma che costringerà il mondo dell’informazione a occuparsene di nuovo) dovrebbe arrivare la prossima settimana. Meloni, in questi giorni, ha dribblato l’argomento in un botta e risposta al Senato con il leader di Italia viva, Matteo Renzi. Alla domanda “Lei lo ha scarcerato perché – come ha detto il ministro Nordio – c’era un cavillo giuridico o – come ha detto su Rai1 il portavoce ufficioso del governo, Bruno Vespa – perché c’era un interesse nazionale?”, l’inquilina di palazzo Chigi si è limitata a una battuta brillante ma evasiva: “Mi rendo conto che magari continuare a gettare ombre possa essere utile per lei, ma mi perdonerà se non la seguo perché francamente la sua necessità di vendere il suo libro non è la mia priorità”.
Il governo, del resto, persegue la stessa tattica evasiva anche nei canali ufficiali, e ha ignorato la scadenza del 17 marzo per i chiarimenti richiesti dalla Corte dell’Aia sul trattamento riservato ad Almasri. Chiarimenti che Roma ha fatto sapere di volere posticipare all’esito degli accertamenti in corso presso il tribunale dei ministri italiano, che ha aperto un fascicolo a carico di Giorgia Meloni, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano.
In ogni caso, il ministro dell’Interno Piantedosi, in una recente intervista, ha ribadito la linea di totale negazione: Almasri, ha sostenuto, “non è mai stato un interlocutore mio o del governo per la gestione dei temi migratori o altro. Non l’ho mai conosciuto e non ne conoscevo l’esistenza”. Linea che però non spiega la sollecitudine con la quale fu attivato il volo di Stato per il generale libico, mentre Almasri era ancora in stato di fermo a Torino e formalmente il caso non era ancora giunto a conclusione. Né chiarisce un altro degli aspetti fumosi della vicenda: in un comunicato, diffuso il 22 gennaio scorso, dopo il rilascio dell’indagato da parte italiana, la Cpi ha reso noto che “su richiesta e nel pieno rispetto delle autorità italiane, la Corte si è deliberatamente astenuta dal commentare pubblicamente l’arresto dell’indagato”.
Perché il governo ha chiesto all’Aia il silenzio su Almasri, quando ancora formalmente nessuna decisione era stata assunta da Roma? Prima ancora di valutare le carte e le eventuali falle nella procedura di arresto, era scattato l’allarme in qualche ambiente del governo o dei servizi segreti, o magari di una grande partecipata di Stato con corposi interessi economici in Libia? Lam Magok, il cittadino sudanese che si dice vittima e testimone delle torture di Almasri, ha chiesto, attraverso il suo legale, che il tribunale dei ministri faccia chiarezza su questo proprio con la Cpi; su questo specifico dettaglio del caso è stata depositata anche una interrogazione parlamentare da parte dell’Alleanza verdi-sinistra.
Nel frattempo, a contrastare la tattica del “sopire, troncare”, si è impegnato, con un appassionato intervento pubblicato sulla “Stampa”, don Mattia Ferrari, il giovane cappellano della Ong Mediterranea Saving Humans, impegnata nei salvataggi dei migranti in mare. Parlando di “mafia libica” e dei “boss che negli anni hanno collaudato e coordinano nell’insieme il sistema dei respingimenti, dei lager e del traffico di esseri umani e non solo”, il sacerdote ha rilanciato la sua indignazione perché “l’unica volta che finalmente uno di loro era chiamato a rispondere dei suoi crimini contro l’umanità e crimini di guerra, ed era chiamato a raccontare la verità su uno dei misteri più grossi di questa epoca storica, quel boss è stato scarcerato e riportato con volo di Stato in Libia”. Nota a margine: curiosa combinazione che don Mattia sia uno dei nostri connazionali spiati attraverso il software israeliano Paragon, del cui uso (su basi giuridiche non chiare) nei confronti di attivisti e giornalisti finora nessuna organizzazione dello Stato italiano si è assunta la responsabilità.