
La Macedonia del Nord è uno dei Paesi europei meno citati dai media, ma suo malgrado è assurto agli onori delle cronache per l’incendio scoppiato, nella notte fra sabato e domenica scorsi, nella discoteca Pulse di Kočani, piccola città situata nella parte orientale del Paese, provocando la morte di 59 giovani e il ferimento di 155. Come abbiamo letto e ascoltato in questi giorni, tra le cause dell’incendio ci sarebbe stato l’uso di materiale pirotecnico all’interno di una struttura priva di qualsiasi dispositivo di sicurezza, con una sola uscita chiusa ermeticamente, dunque inutilizzabile. Già nella serata di domenica 16 marzo, il procuratore di Stato, Ljupco Kocevski, con una tempestività rara da quelle parti, aveva annunciato l’arresto di dieci persone accusate di diversi reati. Malgrado il locale non avesse i requisiti per ospitare una discoteca, i gestori erano riusciti a ottenere un permesso direttamente dal ministero dell’Economia, ben quindici anni fa.
Una concessione che nessuno degli esecutivi successivi si era preoccupato di rettificare. Compreso quello presieduto dall’attuale primo ministro, Hristijan Mickoski, che ha immediatamente puntato l’indice contro una corruzione che è il male cronico della politica macedone, responsabile del grave disastro, al punto da spingere i giovani verso una protesta antigovernativa con lo slogan “facciamo come in Serbia”, Paese in cui le imponenti manifestazioni dei giovani (vedi qui), e non solo, sono esplose dopo il crollo, il primo novembre scorso, di una tettoia in una stazione ferroviaria a Novi Sad, che aveva provocato la morte di quindici persone.
Ma qual è la situazione politica generale a Skopje e dintorni? Anche nella Macedonia del Nord si riproduce lo scenario presente in quasi tutti i Paesi di quell’area geografica, caratterizzato dalla presenza di un’opinione politica europeista e di un’altra più vicina a Mosca. Al riguardo, tuttavia, nel Paese balcanico la situazione non è esasperata. È vero che la maggioranza della popolazione ritiene la Nato e l’Ucraina i principali responsabili del conflitto tra Mosca e Kiev, ma la principale criticità concerne il nazionalismo, aspetto che, pur dividendo i principali partiti, rende complicati i rapporti con l’Unione europea. Nelle elezioni dello scorso maggio ad affermarsi sono stati appunto i nazionalisti di Vmro-Dpmne (in italiano, Organizzazione rivoluzionaria interna macedone – Partito democratico per l’unità nazionale macedone) che esprime sia la presidente Gordana Siljanovska-Davkova, prima donna a ricoprire la suprema carica istituzionale della Macedonia del Nord, sia il primo ministro Hristijan Mickoski, leader del partito.
A farne le spese l’Sdsm (Unione socialdemocratica di Macedonia), partito membro dell’Internazionale socialista e osservatore del gruppo del Pse (Partito socialista europeo), che, fino allo scorso anno, aveva governato esprimendo, anche in quel caso, sia la presidenza della Repubblica nella persona di Stevo Pendarovski, sia il primo ministro, Dimitar Kovačevski. L’Sdsm, fino a quel momento, aveva governato con la Dui (Unione democratica per l’integrazione), che rappresenta la comunità albanese, circa un quarto dei 2,1 milioni di abitanti del Paese. Un’organizzazione rimasta al governo ininterrottamente dal 2001, per oltre vent’anni, durante i quali ha maturato un grande potere all’interno di un sistema corrotto anche al proprio interno. L’alleanza però ha penalizzato i socialisti, che comunque, durante la legislatura, hanno fatto ben poco per migliorare e modernizzare il Paese: nel 2018 è stato raggiunto un importante accordo con la Grecia – mai riconosciuto dalla destra – con la scelta di chiamare Macedonia del Nord la parte di lingua macedone, mettendo fine così ad anni di tensione (in quanto, com’è noto, Macedonia è anche il nome della rispettiva regione ellenica); il Paese è poi entrato nella Nato, nel 2020, ma non è stato fatto praticamente nulla nella lotta alla corruzione e nella riforma del sistema giudiziario, a parte ridurre i termini della prescrizione.
Se Atene piange però Sparta non ride. Per arrivare a vincere le elezioni, Mickoski ha dovuto mettere insieme i cocci di un partito in grande difficoltà, dopo che il suo ex leader e premier, Nikola Gruevski, era finito sotto inchiesta proprio per corruzione, rifugiandosi in Ungheria per sfuggire all’arresto, dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico. La vittoria del Vmro-Dpmne se non ha comportato particolari cambiamenti riguardo al conflitto russo-ucraino, ha tuttavia buttato benzina sul fuoco sulle tematiche di carattere nazionalistico, il che rischia di rendere molto complicato l’ingresso in Europa. Il primo punto concerne le tensioni con la Grecia e la follia insita nell’intenzione di riaprire quel fronte; il secondo riguarda la presenza di una minoranza bulgara in Macedonia e il suo eventuale riconoscimento attraverso alcune modifiche della Costituzione, condizione richiesta dalla Bulgaria per togliere il veto all’ingresso dei vicini in Europa.
Ma il Vmro-Dpmne, avverso a qualsiasi modifica costituzionale già al tempo della sua opposizione, non ha cambiato idea, forte del sostegno di una parte dell’opinione pubblica, timorosa della perdita dell’identità del proprio Paese: una prospettiva che non esitiamo a definire razzista, oltre che insensata, controproducente per la stessa Macedonia del Nord. Come se non bastasse, Mickoski, fin dalla campagna elettorale, ha messo nel mirino il partito filo-albanese, mettendo a rischio anche in questo caso i rapporti con l’altro Paese vicino. Appare incredibile come – a fronte di problemi importanti come il rilancio di un’economia comunque in crescita, che deve però mettere un freno all’esodo soprattutto di giovani (negli ultimi vent’anni il Paese ha perso circa il 10% della popolazione a causa dell’emigrazione di massa) – si punti su un ridicolo nazionalismo, che non fa altro che inasprire i rapporti con i vicini.
Così, se da un lato i socialdemocratici si sono rivelati incapaci di riformare il Paese, i nazionalisti, che non stanno facendo nulla in tal senso, sono impegnati a gettare benzina sul fuoco in un’area in perenne fibrillazione come quella balcanica. Anche qui, come in Serbia, la speranza va riposta nei giovani, che devono affrontare sfide però troppo grandi, privi come sono di una sponda politica importante e seria che li sostenga.