
Ai tempi di ReArm Europe, di conflitti e congiunture geopolitiche precarie, l’industria bellica appare, purtroppo, come un comparto ad alta redditività. Quello delle auto, al contrario, è un settore che subisce le variazioni del mercato e i riflessi di un sistema in difficoltà, che deve competere con aziende di Paesi dalle grandi capacità tecniche e dai limitati costi produttivi. Così, per salvare le imprese automobilistiche, il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, propone di incentivarle “a diversificare e riconvertire le proprie attività verso settori ad alto potenziale di crescita come la difesa, l’aerospazio, la blue economy, la cybersicurezza”, giustificando la manovra con l’impegno verso i dipendenti: “Siamo un governo responsabile: il nostro obiettivo è mettere in sicurezza le imprese e tutelare i lavoratori”, ha dichiarato.
Peccato che i sindacati non siano particolarmente favorevoli. Secondo la Cgil, l’ipotesi di convertire le fabbriche di auto è una scelta “assurda dal punto di vista etico, industriale e occupazionale”. Anche la Uil parla di “piano non realistico, al di là di ogni considerazione di carattere politico e morale”; solo la Cisl si mantiene più possibilista e si dichiara “favorevole a cogliere le opportunità”.
L’altra argomentazione di Urso per una trasformazione produttiva di questo tipo è legata ai componenti. “Un microchip già adesso può servire per un’auto o per un satellite – ha detto –, la scheda elettronica funziona sia in un veicolo urbano sia in un elicottero; il cingolato muove un trattore come un blindato che tutela i nostri militari in Libano”. Eppure, la produzione di veicoli militari ad alta tecnologia richiede competenze specialistiche che molti operai del settore automotive non possiedono. A quanto pare, saranno necessarie massicce operazioni di formazione e riqualificazione, con costi che potrebbero non essere completamente sostenibili per le aziende.
Tra le opposizioni, ci sono soprattutto il Movimento 5 Stelle e l’Alleanza verdi-sinistra: “Con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro il ministro Urso sta pensando a un piano di riconversione che non sarebbe altro che la pietra tombale per la nostra economia e il settore dell’automotive”, dice Chiara Appendino, vicepresidente del gruppo 5 Stelle: “Parlano di riconversione, ma quella che vogliono è un’economia di guerra”. Sulla stessa linea anche Avs, con la deputata Luana Zanella, che la trova una “trovata agghiacciante per la sua mancanza di etica e priva di un ragionamento economico”.
Se la Fiat dovrà costruire cingolati e veicoli militari, a sparire sarà il sogno dell’auto elettrica con consumi limitati. Urso ha infatti anche annunciato che il governo “non rinnoverà l’ecobonus su scala nazionale”, ossia il sistema di incentivi per l’acquisto di auto a scarse emissioni. Le case automobilistiche, soprattutto quelle italiane, hanno investito miliardi negli ultimi anni per allinearsi agli standard europei e globali in termini di sostenibilità. Tuttavia, l’orientamento dell’esecutivo attuale si allontana dall’idea di una mobilità verde, spingendo, invece, verso una strategia volta unicamente alla sicurezza nazionale e all’industria bellica. Sembra una politica miope e povera sul lungo periodo, visto che gli esperti raccontano di un futuro in cui le esigenze ambientali e l’abbattimento di CO2 diventerà così urgente da costringere ad accantonare tutte le altre priorità.
Il programma di riconversione guarda ovviamente al riarmo dell’Europa, che, come spiega il presidente del Consiglio d’Europa, António Costa, si otterrà attraverso “un allentamento delle regole europee sul debito, in modo che i governi possano spendere più soldi in armamenti senza temere sanzioni da Bruxelles”. Questo vuol dire che ci sarà un impiego più flessibile dei fondi, e ci sarebbe anche la possibilità che si chiedano dei prestiti alla Commissione europea con l’intento di investire nel comparto militare. È una scelta ad alta redditività, ma nel breve termine. La prova sta nel fatto che in Germania, recentemente, la capitalizzazione di mercato dell’azienda bellica Rheinmetall ha superato quella della Volkswagen (54,7 miliardi), raggiungendo circa 56,2 miliardi di euro. E appare anche una misura rischiosa. La produttività di un intero settore sarebbe fortemente influenzata dagli eventi e dalle decisioni di politica estera. Abbiamo visto quanto possa essere instabile la situazione geopolitica nell’era Trump, per cui la dipendenza dalle commesse militari potrebbe rivelarsi un azzardo.
Ultima tra le preoccupazioni c’è quella dell’effettivo utilizzo dei macchinari nella difesa. Secondo il recente report del Sipri (di cui abbiamo parlato qui), l’Italia è al sesto posto a livello mondiale per l’export di armamenti, con commerci che si dirigono verso regioni pericolose per la triangolazione e verso Paesi in guerra, proibiti dalla legge italiana. La stessa Russia, tanto osteggiata dall’Unione, ha ricevuto, secondo un’inchiesta di IrpiMedia del 2024, macchinari per munizioni e pezzi di ricambio dall’Italia per un valore di quasi 3,5 milioni di euro. L’azienda italiana Vasini Srl aveva contatti commerciali diretti con la fabbrica russa di cartucce di Tula, a duecento km da Mosca, e trenta delle spedizioni sono state effettuate dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, quindi dopo l’embargo introdotto dal Consiglio europeo. Queste cartucce sono poi state usate dalla Russia, e nonostante non ci siano elementi per ritenere che l’azienda italiana fosse a conoscenza dell’utilizzo effettivo dei loro prodotti, si può comunque ritenere che questo tipo di scambio commerciale sia molto frequente. Lo svuotamento della legge 84 del 1994, che regola il commercio di armi all’estero, potrebbe causare l’aumento di situazioni del genere: in cui si finisce per vendere le armi proprio ai Paesi da cui si millanta di volersi difendere. Mentre per le automobili, chissà, probabilmente preferiremo sempre di più le Toyota.