
Intorno alle 2.10 della notte tra il 17 e il 18 marzo, ora locale, Israele ha ricominciato a bombardare Gaza, senza alcun avviso preventivo e con una violenza tale da uccidere, in poche ore, centinaia di persone. Sono stati colpiti nella notte, mentre dormivano, soprattutto donne, anziani, bambini. Un giornalista ha testimoniato ad Al Jazeera di avere visto arrivare ventisei membri di una stessa famiglia in uno degli ospedali del centro di Gaza, subito sopraffatto dal numero dei feriti. Manca il sangue per le trasfusioni, mancano le medicine. L’assedio israeliano dura ormai da più di due settimane, con un blocco totale di cibo e aiuti umanitari. Lunedì, il ministro degli Esteri, Israel Katz, ha ordinato di chiudere il valico di Rafah anche alle evacuazioni mediche, grazie alle quali, durante il cessate il fuoco, decine di persone, tra cui molti bambini gravemente ammalati o feriti, sono riusciti a essere trasportati all’estero per le cure. Chi era in lista per una speranza, si è ritrovato nuovamente bloccato in una condanna a morte.
Israele ha bombardato scuole rifugio, tende, case e palazzi, anche quelli già danneggiati nei quali si riparavano i sopravvissuti dei precedenti quindici mesi di attacchi, che hanno già ucciso circa 48.000 persone, con un bilancio che potrebbe arrivare a oltre sessantamila, contando i dispersi rimasti sotto le macerie e le fosse comuni in giro per la Striscia.
L’accordo siglato con Hamas prevedeva di iniziare con una prima fase in cui, interrotti i bombardamenti, si sarebbero scambiati prigionieri palestinesi con un certo numero di ostaggi israeliani. Allo stesso tempo, si sarebbero dovuti tenere colloqui per giungere alla seconda fase dell’intesa, che avrebbe previsto un cessate il fuoco duraturo, il ritiro dei militari israeliani da Gaza e il rilascio di tutti gli ostaggi rimanenti, sia vivi sia morti. Ma pur essendosi impegnata a farlo, Tel Aviv si è rifiutata di negoziare la seconda fase, così come non ha mantenuto l’impegno di permettere l’ingresso nella Striscia di sessantamila casette mobili e duecentomila tende per gli sfollati, e non ha mai interrotto del tutto gli attacchi, in particolare quelli con droni, che durante la tregua hanno ucciso centocinquanta palestinesi, tra cui bambini. L’esercito ha sempre dichiarato di avere colpito “sospetti” o persone che stavano sistemando esplosivi. Ma nessun attacco contro i militari c’è stato a Gaza, in questi due mesi, da parte di Hamas.
Il blocco degli aiuti umanitari e il taglio dell’energia elettrica, che ha causato una drastica diminuzione dell’acqua potabile nell’enclave, dovevano servire a mettere sotto pressione Hamas perché accettasse le nuove condizioni imposte da Tel Aviv (e dal suo alleato di Washington) durante i negoziati: nessuna seconda fase, nessun cessate il fuoco permanente, nessun ritiro, ma il rilascio di tutti gli ostaggi, senza la garanzia che i bombardamenti non sarebbero ripresi. Il gruppo islamista, con il quale per un periodo gli Stati Uniti hanno negoziato direttamente, in un incontro senza precedenti storici documentati, che non ha certo fatto felice Netanyahu, aveva accettato la proposta dell’inviato di Trump per gli ostaggi, Adam Boehler, di liberare il soldato israelo-americano Idan Alexander. Hamas si era detta pronta alla restituzione anche di quattro corpi di ostaggi con doppia cittadinanza. Ma con una mossa a sorpresa, il segretario di Stato, Marco Rubio, ha dichiarato che i colloqui rappresentavano un’eccezione che non si sarebbe più ripetuta, ritirando le richieste fatte a Hamas. È poi arrivata l’ora dell’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha presentato la sua proposta, l’unica su cui Israele sia disponibile a trattare: estensione della tregua di sessanta giorni con rilascio di undici ostaggi vivi e la metà di quelli morti.
Hamas è rimasta aggrappata all’accordo sulla seconda fase, tentando di rimettere sul tavolo il ritiro israeliano e la garanzia della fine dei bombardamenti: il che porterebbe al momento della ricostruzione della Striscia e all’attuazione di un piano (probabilmente quello egiziano, accolto con favore dalla Lega araba e dai Paesi islamici) per la Gaza del dopoguerra. Ciò nondimeno, Stati Uniti e Israele non hanno mai accettato il progetto del Cairo, rilanciando anzi l’ipotesi inverosimile della “riviera” del lusso, mentre provano a contrattare la deportazione di massa dei palestinesi in Africa. Un’inchiesta dell’Associated Press ha rivelato che Washington e Tel Aviv hanno preso contatti con Somalia, Somaliland e Sudan per provare a offrire benefit, nel caso in cui dovessero accettare di accogliere i gazawi cacciati dalla propria terra. Somalia e Sudan hanno però dichiarato che non ritengono in alcun caso la deportazione dei palestinesi un’opzione praticabile.
Nonostante i colloqui di pace stiano ufficialmente proseguendo in queste ore, con la commissione israeliana che rimane a Doha con il mandato di negoziare sull’attuazione del piano Witkoff, Netanyahu aveva già deciso da diversi giorni che avrebbe nuovamente attaccato la Striscia. Lo hanno dichiarato i media israeliani, e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, secondo cui la strategia israeliana, già dall’inizio del mese di marzo, era quella di presentare a Hamas una proposta che non avrebbe mai accettato, avendo così il pretesto per ricominciare i bombardamenti. Israele oggi ha anche provato a presentare gli attacchi – che, mentre scriviamo, hanno già fatto più di quattrocento vittime – come una mossa preventiva per impedire un’azione militare di Hamas. Il movimento islamista ha negato categoricamente questa lettura, dichiarando che non era in preparazione alcun tipo di attacco, e che il gruppo ha rispettato tutti gli accordi di cessate il fuoco.
Mentre ricominciano gli ordini di evacuazione forzata per una popolazione stremata e senza un luogo sicuro verso cui fuggire, gli analisti cercano di capire se l’esercito lancerà anche un’invasione di terra, guidata dal nuovo capo di stato maggiore, Eyal Zamir. La presenza militare è rimasta numerosa in alcune zone della Striscia, soprattutto nel corridoio Filadelfia, al confine con l’Egitto, nonostante Israele avesse acconsentito a completare il ritiro entro gli inizi di marzo.
Alcune associazioni delle famiglie degli ostaggi hanno accusato Netanyahu di non interessarsi alla sorte dei loro cari, e anzi di mettere in pericolo la loro vita. Si attendono manifestazioni e raduni nei prossimi giorni in Israele, anche se non ci si aspetta che le pressioni riescano a fermare i piani di guerra del governo, sostenuto da estremisti e suprematisti che hanno plaudito alla scelta di tornare alle armi e al sangue.
Mentre Tel Aviv ricomincia la sua guerra a Gaza, continuando l’occupazione in Siria e Libano, osserva compiaciuta gli attacchi degli alleati statunitensi sullo Yemen, e si frega le mani ascoltando le minacce di Trump all’Iran. Perché Teheran rimane l’obiettivo finale, il tassello assolutamente necessario affinché Israele possa completare il mosaico e arrivare alla trasformazione dell’area, quel “nuovo Medio Oriente” di cui Netanyahu parlava già molti mesi fa, e che con l’elezione di Trump pare avvicinarsi.