
Nei suoi scritti sul quotidiano socialista “Avanti!”, e sul settimanale “Il grido del popolo”, un giovanissimo Antonio Gramsci, appena arrivato nella Torino dilaniata dallo scontro fra interventisti e neutralisti alla vigilia della Prima guerra mondiale, si concentra, più che sul gioco dei nazionalismi e sulle rivendicazioni territoriali, sull’infrastruttura sociale che dovrebbe sorreggere lo scontro bellico, mappando le forze e gli interessi che dalle retrovie orientano e determinano il corso degli eventi. Uno sforzo che dovremmo cercare di fare anche noi in questo ennesimo confronto su “pace e guerra”, o “burro e cannoni”, per usare un vecchio slogan di una stagione primordiale, che, come nei casi precedenti, sta lacerando quello che rimane della sinistra politica e culturale.
Sul “Corriere della sera” di sabato 8 marzo, Lucrezia Reichlin, una delle economiste progressiste più accreditate in Europa, ha documentato, dati alla mano, l’impatto che una spesa pubblica oculata nella difesa produrrebbe sull’intero supply chain economico, e soprattutto sul profilo di autonomia e indipendenza dell’Unione europea rispetto al ricatto brutalmente annunciato dal nuovo inquilino della Casa Bianca.
In sostanza – ed è questo il tema di un confronto che a sinistra si camuffa ancora da generico pacifismo o retorico europeismo – si tratta di capire se l’Europa debba uscire dal cono d’ombra in cui la strana coppia Trump-Putin la vuole confinare. Se si rimane sotto l’ombrello di Musk, riguardo ai collegamenti satellitari, di Google per le capacità di raccolta e analisi dei dati, di Amazon per la memoria e i data server, ogni richiesta di politica autonoma è una pura petizione di principio che rafforza la nostra dipendenza. Innanzitutto – precisa Reichlin – si tratterebbe di concepire e concertare una tale straordinaria iniziativa – i famosi, quanto mitologici ottocento miliardi, che in realtà sono semplici spostamenti di stanziamenti già decisi – in chiave realmente comunitaria, come chiede Elly Schlein, e non considerarli semplici debiti tollerati per ogni singolo Paese dell’Unione.
Successivamente, bisogna rendersi conto che la spesa nella difesa è composta di tre grandi voci: ricerca, sviluppo, produzione. Le prime due, ricerca e sviluppo, sono sempre state il motore dell’irrobustimento industriale nel secolo scorso. Ci siamo illusi di non essere un prolungamento del complesso militare-industriale statunitense solo perché non eravamo una potenza nucleare, ma gran parte dei sistemi che hanno permesso agli apparati produttivi europei di svilupparsi, dal dopoguerra a oggi, sono stati sostenuti con la spesa per la ricerca militare, dall’aeronautica ai sistemi di automazione industriale, alle tecniche di analisi e diffusione delle comunicazioni nel marketing, come documentano i risultati di una ricerca della London School of Economics, citata dall’economista italiana.
Oggi siamo a un ulteriore salto di qualità: l’evoluzione digitale della guerra – le forme e le procedure di combattimento, le modalità di supporto e preparazione dei conflitti – ha unificato le tecnologie belliche con quelle civili. Nel mio ultimo libro, Connessi a morte (Donzelli editore), è documentata proprio la struttura della nuova logistica militare, basata su capacità di calcolo, integrazione con sistemi satellitari a bassa quota, software di profilazione di grandi moltitudini di cittadini, apparati di visione e riconoscimento artificiale, droni e sistemi di guida a distanza, con l’inevitabile corredo di microchip e calcolatori ad altissima capacità computazionale. Sono oggi queste le tecnologie che assicurano una piena sovranità politica. L’Europa, pur avendo le competenze e le abilità necessarie, non ha il modello industriale di sviluppo e diffusione. E soprattutto non ha la volontà politica. Quello che manca oggi, paradossalmente, è proprio una visione politica, ancora meglio, un partito che possa declinare insieme autonomia ed eguaglianza, democrazia e sviluppo. Avendo chiaro che ormai l’alternativa alla guerra, intesa come combattimento, non è più uno stato di pace e di collaborazione globale, ma un regime di guerra ibrida, dove sono ormai permanenti e ineliminabili gli attacchi alle certezze di quella inestimabile materia prima della società digitale, cioè l’informazione e la sicurezza, nel poter contare su un proprio senso comune, su una propria opinione pubblica, non minacciata da interferenze e manipolazioni che mirano a sobillare intere comunità e territori.
Dunque, la partita che si sta giocando in Ucraina è proprio sulla costituzione di un protagonismo autonomo dell’Europa, al riparo di ogni servitù tecnologica con gli Stati Uniti e militare con Mosca, capace di intrecciare lo sviluppo tecnologico con una strategia di diffusione sociale dei benefici e degli indotti di questa produzione di saperi e di infrastrutture intelligenti.
L’alternativa, quella di sostituire la propria capacità di deterrenza tecnologica sulla scena internazionale con una missione diplomatica, la stiamo vedendo in queste ore: mentre gli americani sospendono ogni sostegno di intelligence a Kiev, e il potentato privato di Musk riduce la copertura satellitare delle truppe ucraine, non abbiamo sotto gli occhi una maggiore disponibilità alla trattativa, ma uno sfondamento sui fronti di Kusk e del Donbass da parte delle armate russe, che non trovano più opposizione nella resistenza ucraina. Sarebbe terribile trovarsi a constatare, dopo un’ennesima battaglia ideologica, peraltro senza partiti ma solo con opinionisti in libera uscita, che l’Europa non va avanti, che i singoli Paesi del continente rimangono subalterni a Washington, mentre Mosca, memore della lezione impartita sui campi di battaglia, secondo quanto recitava la nota massima di Tacito, riferita al terrore romano in Britannia, fanno un deserto e lo chiamano pace.