
La necessità di sviluppare il più rapidamente possibile una vera, efficace e adeguata difesa comune europea, secondo un progetto che non si limiterebbe alla sola Unione europea, è basata su tre ragioni e un paradosso. Le prime due ragioni sono geopolitiche: innanzitutto la guerra russa in Ucraina, con la necessità “esistenziale” per l’Europa di continuare a sostenere la resistenza all’invasore; in secondo luogo, il voltafaccia degli Stati Uniti di Trump, che minacciano di ritirare il loro sostegno militare agli europei in ambito Nato e di imporre agli ucraini una pace che sarebbe una capitolazione, secondo i termini dettati da Putin. Oggi nessuno può più dire, com’è stato fatto per decenni nel dibattito sull’opportunità di una difesa comune dell’Unione, che non sia necessario procedere su questa strada, perché comunque c’è la Nato che garantisce la sicurezza dei Paesi europei. La terza ragione sta nell’opportunità di coinvolgere nel progetto della difesa comune il Regno Unito, con la sua capacità militare tra le più rilevanti ed efficienti in Europa, e il suo status di potenza nucleare e di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Londra, con il premier laburista Starmer, ne è ben consapevole, e sta anzi giocando un ruolo chiave, insieme con la Francia di Macron, nella costruzione della “coalizione dei volenterosi”, che comprende l’Unione come attore chiave, ma non (o almeno non formalmente) come promotore. La coalizione (di cui fanno parte anche Norvegia e Islanda, e poi il Canada e la Turchia) mira a fornire garanzie di sicurezza all’Ucraina dopo un eventuale accordo con la Russia, coordinando e articolando le risorse, le capacità e gli asset in campo militare dei Paesi partecipanti. Questo sforzo concreto, sul campo, potrebbe costituire l’esperienza fondante e il nucleo centrale di una nuova “Unione della difesa”, non immediatamente integrata nell’Unione europea, ma interconnessa con le istituzioni di Bruxelles e con la partecipazione diretta di una buona parte dei Ventisette.
Il paradosso è proprio qui: affinché possa esistere una difesa comune europea, con una sua vera politica estera e di sicurezza (senza il paralizzante diritto di veto, tanto caro all’Ungheria di Orbán) e con una politica industriale sottostante unica, armonizzata e adeguata, gli europei dovranno agire al di fuori del quadro Ue e del “metodo comunitario”, con accordi intergovernativi tra gli Stati membri, disponibili ad avanzare su questa strada, e altri Paesi europei extracomunitari, come appunto il Regno Unito, la Norvegia e l’Islanda.
Si potrebbe addirittura pensare a un nuovo trattato che decida la creazione progressiva di un esercito europeo, una nuova Comunità della difesa (come quella di cui il parlamento francese bocciò la ratifica nell’agosto del 1954), magari con un meccanismo decisionale che preveda la possibilità, per chi non è d’accordo, di non partecipare alle azioni comuni, ma senza bloccare gli altri Paesi. E soprattutto con una vera e propria politica industriale del settore della difesa, armonizzata a livello europeo, che decida chi produce cosa, in quali quantità, a quali prezzi, con quali catene del valore, a chi vendere e da chi acquistare.
Tutto questo oggi, in ambito Ue, con i trattati attuali, semplicemente non è possibile. La politica industriale è una competenza esclusiva degli Stati membri (art. 6 del Trattato sul funzionamento dell’Unione), il che significa che la sua armonizzazione e centralizzazione sono vietate. Certo, la cooperazione volontaria è sempre possibile, ma allora tanto vale organizzarla tra i soli Stati membri favorevoli, fuori dal quadro Ue e con altri Paesi europei. È in questa direzione che va l’iniziativa di Macron e Starmer per la “coalizione dei volenterosi”? Ancora presto per dirlo, ma senza dubbio è una delle strade possibili.
Qual è allora il senso del piano “ReArm Europe”, presentato dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e approvato (all’unanimità, Ungheria compresa) dai capi di Stato di governo al Consiglio europeo straordinario di Bruxelles il 6 marzo? Non si tratta in realtà di un “piano europeo di riarmo da ottocento miliardi di euro”, una definizione ambigua diffusa dalla stessa Commissione, che lascerebbe pensare a una sorta di nuovo Recovery Plan, come il NextGenerationEU post-pandemico, finanziato in gran parte da emissioni di debito e sovvenzioni dell’Unione. In realtà, in questo caso, i soldi, gli ottocento miliardi, li mettono tutti gli Stati membri, con i loro bilanci nazionali, se e in che misura decidono, volontariamente, di aderire al piano. Che si limita sostanzialmente a tre funzioni: facilitare gli investimenti pubblici e privati nelle capacità di difesa, incentivare i programmi di acquisti con appalti congiunti tra diversi paesi membri, e introdurre in questi appalti una “preferenza europea” (buy European) quando è possibile.
La facilitazione degli investimenti può avvenire in tre modi. Il primo è l’attivazione delle clausole di sospensione nazionali del Patto di stabilità, che consentiranno agli Stati membri una spesa aggiuntiva a deficit per la difesa fino all’1,5% del loro Pil, ogni anno per quattro anni, senza fare scattare le procedure per disavanzo eccessivo. La Commissione calcola che, se tutti gli Stati membri faranno uso di questa “flessibilità” e spenderanno in più per la difesa, ogni anno, l’1,5% circa del Pil, grosso modo si arriverà a un investimento totale di seicentocinquanta miliardi in quattro anni. In secondo luogo, è prevista l’emissione sul mercato, da parte della Commissione, di titoli di debito europeo per centocinquanta miliardi di euro, tramite il nuovo strumento finanziario “Safe” (Security Action for Europe). I fondi raccolti saranno destinati a prestiti per i Paesi che li chiederanno, sempre allo scopo di sviluppare le capacità di difesa. Il meccanismo è molto simile a quello del fondo “Sure” da cento miliardi di euro, usato con successo per sostenere i sistemi nazionali di cassa integrazione e salvare posti di lavoro durante e dopo la pandemia. Come per il fondo “Sure”, i prestiti dovranno essere restituiti all’Unione dai Paesi che li chiederanno, ma ci sarà comunque il vantaggio dei tassi d’interesse della Commissione, inferiori a quelli in vigore per i titoli di Stato di circa una ventina di Stati membri, tra cui l’Italia. (Da notare che la “potenza di fuoco” da ottocento miliardi di euro del “ReArm Europe”, non è che la somma dei prestiti del “Safe” – centocinquanta miliardi – e dell’auspicato investimento totale di tutti gli Stati membri per seicentocinquanta miliardi). A tutto questo, si aggiungerà la revisione in corso delle regole della Banca europea degli investimenti (Bei), al fine di consentirle di concedere o garantire prestiti per finanziare gli investimenti nel settore della difesa (ciò che finora era proibito).
Si è parlato molto, infine, della possibilità che gli Stati membri avranno di dirottare una parte dei fondi strutturali della politica di coesione (in questo caso si tratta di sovvenzioni Ue con co-finanziamenti nazionali, destinati allo sviluppo delle regioni) verso progetti riguardanti le capacità di difesa. Si tratta, tuttavia, di una scelta che ogni Paese può decidere di fare o no. L’Italia ha già dichiarato che non si servirà di questa possibilità.
Alla luce del fatto che i fondi previsti dal piano “ReArm Europe” saranno pressoché tutti (salvo quelli della coesione) finanziati a debito da ciascun Paese membro, si capisce la critica espressa dalla segretaria nazionale del Pd, Elly Schlein, che ha affermato, il 6 marzo: “Noi crediamo che serva una difesa davvero comune, non l’aiuto al riarmo dei singoli Stati nazionali”. Schlein, tuttavia, sembra sottovalutare le difficoltà, per non dire l’impossibilità, di arrivare a un’Unione della difesa attraverso gli strumenti previsti dai trattati Ue, che non consentono una politica comunitaria in quest’area, ma solo, come abbiamo visto, tentativi di coordinamento tra gli Stati membri.
Una maggiore “comunitarizzazione” dei piani di difesa europea sarebbe possibile con il ricorso allo strumento degli eurobond (emissioni di debito europeo) per finanziare sovvenzioni Ue agli Stati membri, come nel caso di gran parte dei finanziamenti del NextGenerationEU. Finora, von der Leyen aveva ostinatamente evitato di parlare di questa possibilità, escludendola dalle opzioni possibili. Ma durante la sua conferenza stampa, in occasione del bilancio dei primi cento giorni del suo secondo mandato, il 9 marzo a Bruxelles, la presidente della Commissione, per la prima volta, è sembrata disponibile a esplorare anche questa strada. “Per ora – ha detto – è troppo presto per discuterne, siamo concentrati a fare quello che ci è stato chiesto dal Consiglio europeo solo tre giorni fa; ma niente è fuori dal tavolo, ne parleremo al prossimo Consiglio europeo”, che si terrà il 20 e 21 marzo. “Sono aperta – ha concluso – a qualunque cosa sia necessario fare”.