
Se si esclude il periodo della Repubblica federale di Jugoslavia (1945-1992), presieduta a lungo dal maresciallo Tito, quel territorio, ora diviso in quattro Stati, anzi cinque con il Kosovo, ha conosciuto solo guerre, sommosse e rivolte di ogni genere, in ogni caso una continua instabilità politica. Se Slovenia, Croazia e Montenegro (le prime due membri dell’Unione europea) stanno vivendo da tempo un periodo di tranquillità, non si può dire lo stesso per la Serbia e per i serbi di Bosnia (vedi qui, qui), presi mani e piedi nel conflitto tra l’Europa e la Russia, tra le due visioni del mondo che stanno scuotendo molti Paesi dell’Europa dell’Est – e perfino gli stessi Stati fondatori dell’Unione, compreso il nostro. Negli ultimi giorni, a Belgrado e a Banja Luka, capitale de facto della Serbia bosniaca, ne sono successe di tutti i colori. Dal proseguimento della rivolta studentesca agli scontri dentro il parlamento serbo, fino alla condanna del leader serbo-bosniaco, Milorad Dodik.
Le proteste dei giovani, per lo più universitari, hanno preso il via nel novembre scorso, all’indomani del crollo nella stazione ferroviaria di Novi Sad, seconda città del Paese, a circa sessanta chilometri dalla capitale, che ha causato la morte di quindici persone. Un incidente attribuito alla scarsa manutenzione, frutto dell’onnipresente corruzione del sistema di potere del presidente nazionalista, Aleksandar Vučić, del Partito progressista serbo (Sns), che governa dal 2012, e che, pur mantenendo un’attenzione nei confronti dell’Unione, ha legami molto stretti con Vladimir Putin.
La città luogo della tragedia è così diventata il punto di riferimento della mobilitazione giovanile culminata, martedì scorso, nell’invito alla popolazione ad attuare uno sciopero generale con le modalità più diverse: dal prendersi un giorno libero dal lavoro o di malattia, all’evitare di usufruire di servizi di ristorazione, o di andare al cinema e a teatro, oppure di prendere mezzi di trasporto. Un’idea originale, nata in occasione dello sciopero generale del 24 gennaio scorso, il cui esito è stato decisamente positivo, il che ha spinto i promotori a organizzare nei prossimi mesi altre proteste.“Ringraziamo coloro che hanno risposto al nostro appello per lo sciopero generale e l’interruzione delle attività – riferiscono i rappresentanti del movimento alla testata online “Serbian Monitor”– e speriamo che altri si uniranno a noi in questa lotta per soddisfare le richieste studentesche, che sono anche le richieste dei cittadini”.
La protesta, oltre a essere indirizzata contro le massime cariche del Paese, vuole evidenziare il cattivo funzionamento delle istituzioni, le pressioni sui lavoratori del settore pubblico, che provocano un malcontento generalizzato. Anche l’Ordine degli avvocati ha proclamato uno sciopero. Srđan Gligorić, rappresentante dell’Ordine, ha dichiarato a “Serbian Monitor” che continueranno a sostenere le richieste degli studenti fino a quando non saranno soddisfatte. “Lavoreremo al minimo, come durante lo sciopero che è durato un mese – ha dichiarato Gligorić – e l’Ordine degli avvocati della Vojvodina ha già proposto al presidente dell’Ordine di Serbia di convocare una nuova sessione per decidere ulteriori quindici giorni di interruzione del lavoro, poiché le richieste degli studenti non sono state accolte”.Ha inoltreaggiunto che “saranno avviati procedimenti disciplinari contro gli avvocati che non hanno rispettato l’interruzione del lavoro”.
Non sono mancati scioperi nelle scuole di grado inferiore, anche da parte di quegli istituti che hanno aderito solo parzialmente al blocco delle attività. Negli ultimi trent’anni, ovvero dalla fine della guerra che aveva insanguinato l’ex Jugoslavia, non si erano mai verificate proteste di queste proporzioni dietro le quali, secondo il presidente, ci sarebbe la mano americana; ma dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid) sarebbero arrivati sostegni perlopiù a programmi e progetti sostenuti dallo stesso governo serbo.
Intanto, nel parlamento serbo l’opposizione si rendeva protagonista di una protesta fatta di cori, fischi e lancio di petardi, con il ferimento di tre parlamentari, contro la decisione di collocare alla fine della discussione parlamentare la validità delle dimissioni del primo ministro, Miloš Vučević, in realtà già uscito di scena lo scorso 28 gennaio. Dall’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, la stessa opposizione politica e sociale deve registrare un calo di interesse da parte occidentale. “Trump ha sostenuto la sospensione dei lavori di Usaid – dice Giorgio Fruscione, politologo residente a Belgrado, insegnante di italiano, oltre che ricercatore presso l’Ispi –, dando così l’impressione che l’attuale situazione a livello mondiale giochi a favore del presidente Aleksandar Vučić. Sono infatti poche le voci di sostegno che da fuori appoggiano gli studenti. L’Unione europea, sempre più isolata a causa dell’allineamento Washington-Mosca, è stata sin qui silente. Un paradosso, se si pensa che gli studenti serbi non fanno che rivendicare princìpi da sempre cari all’Unione: giustizia, lotta alla corruzione e rispetto dello Stato di diritto”.
Come abbiamo accennato, le cose non vanno meglio nella vicina Bosnia-Erzegovina, per ciò che riguarda la parte serba del piccolo Paese. Lo scorso 28 febbraio, il tribunale bosniaco ha condannato, in primo grado, Milorad Dodik, presidente della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, a una pena detentiva e all’esclusione dalle cariche pubbliche per non aver rispettato le decisioni dell’Alto rappresentante (autorità istituita a livello internazionale dopo gli accordi di Dayton del 1995), Christian Schmidt, avversato da Mosca e spesso accusato di eccessivo interventismo nella promulgazione delle leggi bosniache, come per esempio quella elettorale del 2022. Assolto, invece, il secondo imputato, Miloš Lukić, direttore della “Gazzetta ufficiale” della Repubblica perché, all’epoca della promulgazione delle controverse leggi, non ne era ancora direttore. Dodik insomma avrebbe ignorato quanto deciso da Schmidt, ovvero impedire l’entrata in vigore di due atti legislativi approvati dall’Assemblea popolare: la legge sulla non applicabilità delle decisioni della Corte costituzionale e quella sulle modifiche alla legge sulla pubblicazione delle leggi e degli altri atti normativi della Repubblica.
Da anni (vedi qui), Dodik – contrario alle istituzioni della federazione – vuole rendere la Repubblica serbo-bosniaca sempre più autonoma, organizzando anche un esercito, e ha manifestato, dopo la sentenza, l’intenzione di promulgare nuove leggi. Siamo solo al primo grado di giudizio e, per il momento, per Dodik (che non ha mai nascosto la sua amicizia e vicinanza politica con Putin) non cambia nulla. Ma qualora si arrivi a una condanna definitiva, che prevederebbe l’estromissione del leader serbo-bosniaco da ogni incarico, la situazione potrebbe farsi seria. C’è solo da sperare che, quando sarà il momento, tra la Russia e l’Occidente i rapporti siano meno conflittuali.