
Pronti a consegnare le armi, a sciogliersi, a sostenere un percorso di pace e lavorare per la democratizzazione della Turchia e del Medio Oriente. L’appello di Abdullah Öcalan è una scossa che sbalordisce, colpisce, turba le menti e divora le certezze. Dei curdi, innanzitutto – ma anche di chi in giro per il mondo ha seguito la loro lotta, si è ispirato al loro modello organizzativo, e in essi ha riposto le speranze di un futuro rivoluzionario internazionale. La fine di una lunga epoca, forse. E sarebbe fisiologico e naturale, se non fosse anche la dichiarazione di un fallimento. “Come afferma in modo molto sorprendente la dichiarazione [di Öcalan]”, ha affermato il comitato esecutivo del Partito dei lavoratori del Curdistan (Pkk), “ora dovremmo fare in modo molto chiaro e deciso ciò che avremmo dovuto fare negli ultimi trentacinque anni in generale, e negli ultimi venti in particolare, ma che all’epoca non siamo riusciti a fare abbastanza”. Un cambiamento che porti a qualcosa di nuovo, intraprendendo una strada che già doveva essere percorsa.
L’“Appello per la pace e la società democratica” è frutto, d’altro canto, di un percorso assolutamente inatteso. È stato Devlet Bahceli, leader dell’Mhp, il partito ultranazionalista che siede al governo, a sollecitare e cominciare una negoziazione con “Apo” (com’è soprannominato Öcalan). A partire da Bahceli, il partito curdo Dem ha potuto lavorare al dialogo con il Pkk direttamente dal carcere di Imrali, dove Öcalan è detenuto da ventisei anni. Ed è a lui che il leader curdo si rivolge nel suo appello, a Bahceli e al presidente Erdogan: “L’appello lanciato da Devlet Bahceli, insieme alla volontà espressa dal presidente, ha creato le condizioni per cui lancio una richiesta a deporre le armi e me ne assumo la responsabilità storica”.
Non è chiaro quale espressione di buona volontà abbia dimostrato il presidente turco. Resta estremamente complicato immaginarlo nei panni di un negoziatore disponibile. Eppure, Öcalan vede in questa epoca violenta, instabile e pericolosa, l’età giusta per parlare di pace. È indiscutibile il sentimento profondo che lega un popolo intero al suo leader. Colui che ha pagato e continua a pagare il prezzo di una battaglia che ha visto e vede ancora spargere sangue, ma che ha portato avanti la lotta armata come strumento e opzione di vittoria. “Il Pkk, l’insurrezione e il movimento armato più lungo e sviluppato nella storia della Turchia” – scrive nell’appello – “ha trovato base sociale e sostegno ed è stato ispirato principalmente dal fatto che i canali della politica democratica erano chiusi”.
Lo scioglimento diventa dunque opportuno se quei canali si sono riaperti, ed è questo che pare voler dire ai suoi Öcalan: oggi c’è una nuova via e dobbiamo percorrerla. La risposta del partito di Erdogan, l’Akp, per bocca del suo vicepresidente, è stata però tutt’altro che rassicurante: “Il destinatario di questa chiamata è l’organizzazione terroristica stessa. Vedremo come risponderà. Continueremo la nostra lotta contro il terrorismo. E se il terrorismo persiste, siamo determinati a combatterlo con fermezza”. D’altro canto, solo a novembre altri tre sindaci del partito curdo turco Democrazia e uguaglianza (Dem) erano stati rimossi, attraverso quello che lo stesso movimento politico aveva definito un “colpo di Stato contro la volontà del popolo”.
Certo, non si tratta del primo appello del genere. Nel 2013, una fase ulteriore dei colloqui di Oslo sembrava poter giungere davvero a una soluzione politica della questione curda, che si potesse abbandonare la via delle armi per percorrere quella della negoziazione. In quella occasione, Öcalan chiedeva di “mettere a tacere le armi”, e parlava di “un nuovo inizio” e di “una lotta diversa”. Parole che riecheggiano nell’appello lanciato in questi giorni, dodici anni dopo. Ma non si può fingere di non vedere come le ragioni del fallimento dei colloqui di Oslo siano i motivi probabili dell’arenarsi del processo. Ora, come allora, il Pkk ha dichiarato di avere bisogno del suo leader libero. Non solo fuori dalla prigione ma anche libero di incontrare esponenti politici, collaboratori, fratelli, amici e nemici, e guidare il congresso del Partito. Il governo turco, fino a oggi, non si è mai dimostrato disponibile a trattare su questo punto. Anche ora, nonostante la “volontà espressa dal presidente”, a cui Apo fa riferimento, il ministero della Giustizia turco – e dunque Erdogan che direttamente lo controlla – ha vietato la diffusione del filmato nel quale lo stesso Öcalan leggeva il suo appello. Non che sia importante per la base: è bastata una sua fotografia a far sussultare e gioire migliaia di persone in giro per il mondo. Ma è già un primo, chiaro messaggio.
La presenza del leader, secondo la dichiarazione del Pkk, è fondamentale per affrontare lo scioglimento e anche per il processo di disarmo, che può avvenire unilateralmente, ma “per avere successo, anche la politica democratica e le basi giuridiche devono essere adeguate”. E siamo giunti a un altro punto chiave: Ankara deve fare la sua parte, cambiando le leggi e democratizzando la politica. È interessante osservare che, da diversi membri dei movimenti marxisti e internazionalisti turchi, molti dei quali pure in prigione da diversi anni con accuse di terrorismo, il momento presente è letto come uno dei più violenti non solo in Turchia, ma nella storia dell’umanità. Un’epoca in cui la repressione si abbatte spietata sui popoli che chiedono libertà e democrazia. Gli attacchi di Erdogan agli oppositori politici, le ondate di arresti di giornalisti, avvocati, artisti, attivisti per i diritti umani, restituiscono in effetti una fotografia spietata della Repubblica turca e della sua lotta senza quartiere contro le minoranze e i nemici dello status quo.
Se l’appello di Öcalan, e dunque lo scioglimento del Pkk, dipendono da una concreta dimostrazione di buona volontà da parte di Erdogan, è probabile che dovremo attendere ancora qualche tempo per comprendere appieno quale sia la “svolta” a cui il Partito curdo è destinato. Tuttavia, la teorizzazione politica di Öcalan e l’esperienza del Pkk vivono anche e soprattutto fuori dalla Turchia, motivo per cui la situazione mediorientale e le dinamiche internazionali nell’area arrivano ad avere un’importanza enorme nella valutazione degli scenari futuri. Dopo la caduta di Bashar al-Assad in Siria, l’Esercito nazionale siriano (Sna), formato dalle milizie jihadiste sovvenzionate dalla Turchia, ha lanciato un pesante attacco contro il nord-est del Paese, dove sono le Forze democratiche siriane (Sdf), a guida curda, con la loro amministrazione autonoma. Potrebbe essere questo il vero campo di negoziazione con Ankara. Un campo, al momento, alquanto affollato.