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La politica si va trasformando in un semplice palcoscenico per le nostre emozioni, che in questo modo le manipola al fine di rafforzare il proprio potere. Se invece si basasse sulla razionalità, emergerebbero numerose le obiezioni: le contraddizioni sarebbero rivelate senza indugi, e forse il mondo non sarebbe così soggetto alle ingiustizie e alle disuguaglianze. Daniel Kahneman, psicologo israeliano (vincitore del Nobel nel 2002, con Vernon Smith, per avere integrato la ricerca psicologica nella scienza economica), insegna che il nostro modo di pensare segue una sorta di mappa cognitiva divisa in due sistemi: nel primo si sviluppano le decisioni rapide, istintive e semplici, che guidano la nostra quotidianità; nel secondo, si trovano quelle che richiedono maggiore impegno e ci avvicinano al ragionamento logico e complesso. Kahneman ritiene che il “sistema uno” sia responsabile dei pensieri veloci, il “sistema due” di quelli lenti.
La logica, a differenza della emotività, non consente inganni, e imporrebbe alla politica una trasparenza e una coerenza che oggi appaiono irraggiungibili. Negli ultimi anni, le piazze non si sono mobilitate con le parole d’ordine di una lotta per l’uguaglianza, per la pace, per i diritti. Questi termini sono stati sostituiti da altri, come “difesa della patria” e “tradizione”, cioè da un vocabolario pressoché istintivo, capace di attivare sentimenti di appartenenza e paure profonde.
Le parole non sono neutre. Non solo rappresentano la realtà, ma la modellano, influenzando la nostra visione e interpretazione del mondo. Quando smettiamo di pronunciare “uguaglianza”, smettiamo anche di pensarla. Quando rinunciamo a parlare di “condivisione”, scivoliamo verso un individualismo che si nutre di diffidenze reciproche. Le parole sono il sintomo di ciò che siamo diventati, e in questo senso il “popolo” non è più una categoria politica: diventa un momento dell’anima collettiva. Una condizione a cui nessuno può sfuggire, perché tutti, in fondo, viviamo in bilico tra la volontà di crescere e la tentazione di restare fermi. Ma questa condizione non è irreversibile. È possibile scalare la “piramide cognitiva” di cui parlava lo psicologo Abraham Maslow, abbandonando il piano dei bisogni primari per ambire a orizzonti più ampi.
Uno degli aspetti più inquietanti del nostro tempo è la coincidenza fra popolo e classe dirigente: una sorta di fusione tra il servo e il padrone, per usare una metafora cara alla filosofia. In passato, una tale sovrapposizione sarebbe stata impensabile: i leader, almeno sulla carta, erano scelti tra coloro che dimostravano competenze superiori, visioni lungimiranti, e un’apparenza di integrità morale. Si riponeva fiducia in chi sembrava capace di colmare le lacune della collettività, forte della sua esperienza e autorevolezza, secondo un ideale di progresso. Oggi il criterio è cambiato radicalmente: non si cerca più l’eccezionalità ma l’affinità. Desideriamo leader che ci assomiglino, che ci diano il senso rassicurante di essere un riflesso di noi stessi. La politica, di conseguenza, non guida, ma segue: si adatta riflettendo le incertezze e le paure collettive, senza cercare di emanciparsi da esse. Secondo questo paradigma, il potere non si distacca dal popolo; si è ridotto a una mediocrità che conforta, ma non ispira, che consola, ma non costruisce. Non c’è slancio verso qualcosa di più profondo: coraggio, competenza e grandezza, un tempo valori fondamentali, sono sacrificati in nome, piuttosto, della familiarità. Così ci si ritrova con una guida che non guida, che è solo un riflesso in grado di amplificare la nostra inadeguatezza.
Ma il compito di chi fa politica non dovrebbe essere di ridurre la complessità ai minimi termini, mediante l’uso di slogan vuoti, quanto piuttosto quello di costruire percorsi cognitivi che rendano il sapere accessibile, rispettando sia la profondità dei contenuti sia la libertà di chi ascolta. Il compito dei destinatari, invece, sarebbe quello di apprendere a riconoscere la differenza tra ciò che invita a pensare e ciò che spinge a obbedire, distinguendo tra ciò che apre l’orizzonte e ciò che lo chiude. Ci vogliono certamente impegno e disciplina, ma vale la pena provarci. Ogni passo verso una maggiore consapevolezza di chi e che cosa siamo, sia come individui sia come collettività, è un progresso verso un futuro meno manipolabile, meno influenzato dalle paure. La politica dovrebbe tornare a essere un’attività orientata al miglioramento delle persone, non alla loro seduzione. Dovrebbe smettere di trattare il popolo come una massa passiva da conquistare, e iniziare a vederlo come un insieme di individui da condurre verso una posizione non servile. Non sarà un percorso facile, ma è l’unico che meriti di essere intrapreso.